Come si fa a uscire dall’euro?
Al di là della questione se sia opportuno o no, è possibile? (sì, ma con un bel po' di complicazioni e ostacoli)
«Syriza incarna l’aspettativa di un mutamento di rotta non solo per la Grecia, ma per l’intera Europa. Non c’è nulla da temere: non vogliamo il crollo, ma la salvezza dell’euro». L’ha scritto mercoledì 7 gennaio il leader del partito greco Syriza Alexis Tsipras in una lettera pubblicata sul Corriere della Sera. Le elezioni politiche del 25 gennaio in Grecia sono seguite con molto interesse dai giornali di tutto il mondo, soprattutto dai paesi che fanno parte dell’Unione Europea e che adottano l’euro, perché il partito greco di sinistra guidato da Alexis Tsipras (cioè Syriza) è in vantaggio nei sondaggi e una sua vittoria secondo alcuni minaccerebbe tra l’altro la permanenza della Grecia tra i paesi che adottano l’euro come moneta unica dell’Unione Europea, o persino la futura sopravvivenza dell’euro come lo conosciamo se la scelta avesse successive emulazioni.
Nonostante Tsipras dica da tempo quanto ha ripetuto sul Corriere, con l’inizio della campagna elettorale in Grecia si è ricominciato a discutere di questa possibile uscita della Grecia dall’euro: commenti, analisi, interviste, opinioni e retroscena da giorni hanno ripreso a suggerire l’ipotesi remota – ma già circolata anche su pulpiti molto autorevoli – che la Grecia sia prossima a lasciare l’eurozona o a venirne esclusa in conseguenza di sue potenziali scelte. Prima ancora di capire se questo sarebbe un bene o un male – la discussione come è noto va avanti da molti anni – non è chiaro come tecnicamente si potrebbe realizzare l’uscita di un paese dall’eurozona.
Cosa dicono i trattati? E soprattutto, cosa non dicono?
Prima cosa da sapere: nei trattati europei è prevista la procedura di uscita di uno Stato dall’Unione Europea tout court ma non soltanto dall’euro. A naso, quindi, la risposta sarebbe: si può uscire dall’euro uscendo del tutto dall’Unione Europea. Ma le cose sono un po’ più complicate di così.
Il Trattato sull’Unione Europea, all’articolo 50, stabilisce che uno Stato che voglia uscire dall’UE possa notificare la sua decisione al Consiglio Europeo: si aprirebbe a quel punto una negoziazione dell’Unione sulle modalità del recesso, che dovrebbero essere approvate dal Parlamento Europeo; il Consiglio dovrebbe infine deliberare sull’accordo raggiunto a maggioranza qualificata e dall’entrata in vigore dell’accordo i Trattati smetterebbero di essere applicati nell’ordinamento dello Stato uscente. Nel caso in cui non si riuscisse a trovare un accordo, il recesso dall’UE si considererebbe comunque efficace due anni dopo la data della notifica al Consiglio Europeo (a meno che lo stato non cambi idea). Se un paese volesse uscire dall’Unione Europea per uscire dall’eurozona, dovrebbe mettere in conto quindi una fase di trattative piuttosto lunga, fino a due anni: e la totalità degli analisti – anche quelli favorevoli all’uscita dall’euro – concorda che una fase di negoziati così lunga avrebbe conseguenze disastrose sull’economia e sui mercati europei.
Sebbene la possibilità di abbandonare l’uso dell’euro senza uscire dall’UE non sia contemplata in modo esplicito dai trattati, né sia mai stata prevista una specifica procedura per metterla in pratica, non esiste nemmeno un ostacolo giuridico che impedisca a uno Stato di poterlo fare. La questione è piuttosto «complicata», ha spiegato nel 2011 il francese Jacques Attali, considerato uno dei fautori del Trattato di Maastricht: «Ci si è accuratamente dimenticati di scrivere l’articolo del trattato che permettesse l’uscita da Maastricht». Il punto è: se un paese dell’eurozona dovesse avere la volontà politica di uscire dall’euro, con una decisione presa in modo inequivocabile e definitivo, gli altri paesi non potrebbero impedirglielo. Non c’è una procedura? Andrebbe trovata in quel momento. Ci sono tre strade possibili, perché un paese dica formalmente di avere la volontà politica di uscire dall’euro:
– un referendum, nei paesi in cui si possono fare referendum su questo tema (non in Italia, nonostante la proposta del Movimento 5 Stelle per la generica introduzione dei referendum consultivi);
– una revisione unilaterale di una parte dei Trattati (possibilità prevista dai Trattati stessi), decisa dal governo e dal Parlamento;
– un recesso secondo il diritto internazionale (l’articolo 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati prevede per esempio la cosiddetta norma “rebus sic stantibus”, per cui un cambiamento sostanziale rispetto alle circostanze in cui si è sottoscritto un trattato può portare alla possibilità di recesso da quello stesso trattato), anche questo deciso e votato da governo e Parlamento.
La risposta alla domanda iniziale è quindi: uscire dall’euro è tecnicamente (e giuridicamente) possibile, ma al momento non è previsto in modo esplicito. E questo non facilita la costruzione di un’eventuale volontà politica di farlo.
Ci sono dei precedenti?
No, per quanto riguarda l’eurozona. Molti, invece, se parliamo del cambio di valuta o dell’uscita da una moneta prima comune. Proprio mentre i paesi dell’UE ratificavano Maastricht, per esempio, la Cecoslovacchia decise di dividersi in Repubblica Ceca e Slovacchia, e i due paesi adottarono due monete nazionali differenti: la corona ceca e la corona slovacca (sostituita a sua volta dall’euro nel 2009). Un altro esempio è il Bangladesh, che dopo la separazione dal Pakistan adottò nel 1972 il taka bengalese al posto della rupia. Ci sono anche casi in cui le monete nazionali sono state cambiate: il Brasile (che è una federazione di ventisei stati più uno) nel luglio del 1994 sostituì il cruzeiro con il real.
Concretamente, come dovrebbe avvenire?
Lo studioso francese François Heisbourg – europeista, sostenitore del progetto federalista di un’unione europea e presidente del prestigioso International Institute for Strategic Studies (IISS), ma favorevole alla fine della moneta unica – ha scritto nel suo ultimo libro che «il piano di uscita dall’euro non sarebbe traumatico perché potrebbe essere attuato tecnicamente in un lungo weekend, a mercati chiusi». Questa tesi è condivisa da tutti, sia i favorevoli che i contrari: per uscire dall’euro senza gravi conseguenze bisognerebbe farlo con estrema velocità. Ma si può uscire dall’euro con estrema velocità, considerata la necessità di arrivare a una volontà politica precisa e individuare una procedura che al momento non c’è? Probabilmente no.
Economisti e studiosi contrari alla fine dell’euro sostengono infatti che i problemi comincerebbero non al momento dell’effettivo ritorno alla moneta nazionale, ma già al momento dell’annuncio dell’abbandono dell’euro, se non addirittura al momento di un potenziale annuncio: basti pensare che i mercati europei in questi giorni sono stati agitati non dalla vittoria di Syriza (che appunto si dice pro-euro) alle elezioni in Grecia o dalla fine dell’euro ma dal solo annuncio che la Grecia andrà a elezioni anticipate. I rischi per cui anche chi vuole uscire dall’euro insiste che andrebbe tutto fatto molto in fretta – fughe di capitali, prelievi di massa, collasso delle banche, tensioni varie, ricadute sull’economia globale – non si concretizzerebbero nel momento dell’uscita dall’euro bensì al momento della vittoria elettorale di un partito che vuole uscire dall’euro, o al momento della vittoria dei Sì all’eventuale referendum, o al momento del voto parlamentare sul recesso dal trattato di Maastricht. Oppure, più probabilmente, ancora prima.
Affinché i governi abbiano il tempo di stampare la nuova moneta e approntare la transizione, dovrebbero quindi controllare i movimenti di capitale e i viaggi in paesi esteri. Bisognerebbe fissare un tasso di cambio e soprattutto intavolare una trattativa con gli altri paesi dell’eurozona: i conti correnti andrebbero congelati fino alla loro conversione, perché altrimenti le banche sarebbero con ogni probabilità invase da correntisti desiderosi di estinguere i loro conti. Per poter operare la conversione dei salari e dei redditi nella nuova valuta, i governi dovrebbero inoltre approvare delle leggi specifiche (e averne il tempo), così come andrebbero ridenominati immediatamente anche i debiti. L’ipotesi di un’uscita, insomma, dovrebbe fare i conti con una fase di passaggio molto più lunga di un weekend, e durante la quale sarebbe irrealistico pensare di congelare i conti in banca, impedire i prelievi, i trasferimenti di capitale e i movimenti dei cittadini.
Una strada possibile?
Nel 2013 il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo che spiega una possibile soluzione ai problemi di cui sopra prendendo come esempio la Grecia, ma dicendo che potrebbe valere per qualsiasi altro paese. L’articolo è stato scritto da Ross H. McLeod, professore di economia dell’Australian National University. McLeod spiega che gli scenari catastrofici si basano su cose date per scontate, che hanno però delle alternative.
«Il punto centrale è fissare la quantità iniziale della nuova moneta da emettere, permettendo invece al mercato di stabilire il prezzo al quale viene cambiata. In questo contesto, la Banca centrale annuncia che è disposta ad acquistare euro dalle banche nazionali, dai cittadini greci o da chiunque altro, usando le dracme appena emesse. Tutte queste transazioni dovrebbero avvenire in uno specifico periodo di transizione e dovrebbero essere completamente volontarie. Non si dovrebbe insomma esercitare alcuna confisca.
Terminato il periodo di transizione, il governo greco dovrebbe usare solo dracme nelle sue transazioni finanziarie di tutti i giorni. Nessuno dovrà essere costretto a usare le dracme, ma coloro che vorranno fare transazioni con il governo ne avranno bisogno.
All’inizio del periodo di transizione, la Banca centrale annuncerà il tasso di cambio iniziale al quale le dracme verranno cambiate con gli euro, senza fare esplicitamente alcuna promessa su come il tasso di cambio evolverà in futuro. Il tasso iniziale può essere totalmente arbitrario, così come il nome della nuova moneta».
Questa ipotesi teorizza dunque la coesistenza temporanea di due monete, l’euro e la moneta nazionale. La Banca centrale greca offrirebbe a chi vuole di cambiare i propri euro in dracme, fissando però una quantità limite di dracme disponibili (McLeod ipotizza che possa corrispondere alla quantità di moneta circolante in Grecia per un periodo di tre anni). Le vendite per il primo giorno potrebbero essere molto probabilmente zero, ma pian piano il fatto che il governo paghi solo in dracme farebbe aumentare il prezzo di acquisto e porterebbe più persone a cambiare almeno parte dei loro euro. Durante la transizione il governo continuerebbe a pagare i suoi debiti in euro: sia quelli che ha contratto con la comunità internazionale e i mercati, sia quelli che ha con i suoi fornitori nel paese. Alla fine della fase di transizione il prezzo delle dracme risulterebbe fissato dal mercato: ci sarebbe anche una domanda significativa di nuove dracme e una quantità sufficiente di nuove dracme in circolazione. Conclude McLeod:
«Una volta che ci saranno sufficienti dracme in circolazione, accanto allo “sportello della dracma” creato dalla Banca Centrale si formerebbe un mercato per scambiare dracme in euro e nel corso del tempo le dracme prenderebbero il sopravvento sull’euro. A quel punto, nel bene e nel male, la Grecia si troverebbe di nuovo nella condizione di avere una politica monetaria nuovamente indipendente».
Il problema di questo scenario è che se il prezzo delle dracme fosse fissato dal mercato – lo scopo di chi vuole lasciare l’euro è proprio permettere alla moneta di svalutarsi, così da rafforzare le esportazioni – alla fine della fiera l’ammontare del debito da ripagare non cambierebbe in meglio: sarebbe solo convertito in una valuta più debole. Inoltre, si tratta comunque un po’ di una rinegoziazione del debito: i detentori dei titoli di stato greci hanno comprato quei titoli sulla base di una promessa (ottenere dopo un tot di anni la cifra prestata più gli interessi, in euro) e quei soldi gli sarebbero restituiti in un’altra moneta, violando parzialmente quella promessa. Infine questa ipotesi dovrebbe trovare il consenso dell’eurozona: servirebbe quindi non solo la volontà politica della Grecia ma anche quello della Banca Centrale Europea.