Houellebecq spiegato da Baricco
Che stronca con garbo e rispetto il libro di cui tutti parlano, salvandone la parte di cui non parla nessuno
Nelle ultime settimane si è parlato molto in tutto il mondo del nuovo libro di Michel Houellebecq (Sottomissione), scrittore francese di già estesa fama: sia per via della fama stessa dell’autore, appunto, che della relazione incidentale del libro con la strage a Parigi nella sede di Charlie Hebdo, che aveva dedicato la copertina a Houellebecq, il cui romanzo immagina tra l’altro un’islamizzazione futura della Francia.
Su Repubblica di martedì c’è una lunga recensione scritta da Alessandro Baricco, che spiega efficacemente sia i tratti e le qualità di Houellebecq, che i limiti – grossi, a dire di Baricco – di questo romanzo in termini di costruzione, originalità, e inventiva.
Se ancora esiste una pratica che si chiama letteratura — contraddistinta da un certo dominio tecnico superiore e da un’ardita fedeltà ad antiche, estreme, ambizioni — non sono poi molti gli scrittori che oggi vi si dedicano con risultati memorabili: per quel che ne capisco io, uno è Houellebecq. Per questo, chinarsi su ogni suo libro, anche a costo di uscirne delusi, è un gesto che vale la pena di compiere. Di rado è un’esperienza piacevole: Houellebecq è un pensatore spinoso, prima che uno scrittore capace, e il disprezzo chirurgico con cui prova a fare a pezzi luoghi comuni a cui dobbiamo una parte significativa della nostra buona coscienza rende la lettura dei suoi libri fastidiosa fino alla ripugnanza. Tuttavia, quasi sempre l’intelligenza è affilatissima, e la scrittura non banale. Alte le ambizioni, coerente il gusto. Ce n’è abbastanza per interessarsi a lui: quanto ad amarlo è una conseguenza possibile almeno quanto lo è il detestarlo.
Sottomissione è il suo ultimo romanzo (edito, in Italia, da Bompiani). Un libro placidamente strano, nato, si direbbe, dalla fusione di tre testi differenti: un romanzetto di fantapolitica, un racconto dedicato al mesto declino umano di un accademico parigino e un saggio su J. K. Huysmans, uno dei padri del decadentismo tardo-ottocentesco. La fusione non è proprio riuscitissima (si vedono le cuciture, troppo spesso), e la parte più brillante, senza dubbio, è quella saggistica (tutti a rileggere Huysmans, dopo). A tenere insieme il tutto, assicurando alla lettura una certa gratificazione, ci pensa la mano dell’artigiano, cioè l’abilità della scrittura — un tempo si sarebbe detto lo stile. Quando vuole (e qui vuole) Houellebecq ha questa mirabile capacità di esercitare un dominio assoluto, ma pacato, sulla lingua. Senza sforzo apparente esegue numeri di un certo virtuosismo, ma sempre con l’aria di far un gesto naturale, o scontato. Io ad esempio vorrei capire come fa a tenere su certe frasi lunghe senza che nel transito dall’inizio alla fine non si intrometta il bello scrivere letterario o un qualche esibizionismo barocco. Non è semplicissimo suonare la lingua con arcate così ampie senza appesantirsi per strada; non è scontato saperlo fare senza finire per risultare artificiali. Tuttavia a lui riesce, come provo a mostrare in un passo tra i tanti, che scelgo per l’uso esatto del punto e virgola, segno di punteggiatura coltivato ormai da pochi, raffinatissimi, specialisti. «Non avevo mai avuto la minima vocazione per l’insegnamento — e, quindici anni dopo, la mia carriera aveva solo confermato quell’assenza di vocazione iniziale. Qualche lezione privata in cui mi ero impegnato con la speranza di migliorare il mio tenore di vita mi aveva convinto quasi subito di come la trasmissione del sapere fosse nella maggior parte dei casi impossibile; la diversità delle intelligenze, estrema; e che niente potesse sopprimere o anche solo attenuare tale ineguaglianza fondamentale». Preciso, elegante, naturale. Sembra facile, ma non lo è.
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