Il terremoto della Marsica, 100 anni fa
Fu uno dei più gravi e letali della storia del paese e causò la morte di oltre 32.000 persone: la ricostruzione fu lenta e difficilissima anche perché pochi mesi dopo l'Italia entrò in guerra
La Marsica è un’area interna dell’Abruzzo che prende il nome dai Marsi, l’antica popolazione italica che abitava quelle terre e che attualmente comprende una quarantina di comuni della provincia dell’Aquila. Qui il 13 gennaio del 1915 – cento anni fa – poco prima delle 8 del mattino ci fu un terremoto che causò la morte di oltre trentamila persone: la scossa fu avvertita a centinaia di chilometri di distanza, dal Veneto alla Basilicata, coinvolse una parte del Lazio e circa cinquanta comuni e frazioni della zona, il maggiore dei quali, con circa 10 mila morti, fu Avezzano. Pochi mesi dopo, a maggio, l’Italia entrò in guerra: la ricostruzione fu lenta e difficilissima. Questa mattina le campane dei comuni della Marsica hanno suonato per ricordare, cento anni dopo, le vittime del terremoto.
L’epicentro del terremoto fu l’area del Fucino, un altopiano della Marsica che si trova a circa 650 metri sopra il livello del mare; la scossa più grave fu preceduta da un’attività sismica di bassa magnitudo che durò diverse settimane. L’intensità della scossa principale, che arrivò alle 7:53 del 13 gennaio, raggiunse magnitudo 7. La scossa isolò completamente la zona e la notizia venne data solo nel tardo pomeriggio. I soccorsi arrivarono solamente il giorno dopo anche perché non era stata compresa la reale entità di quello che era successo: e poi molte strade erano impraticabili, c’erano state delle frane, c’erano macerie un po’ ovunque ed era inverno. I primi aiuti arrivarono dai sopravvissuti e dagli abitanti di alcuni centri meno colpiti. Nei giorni successivi il governo fu molto criticato per come erano stati organizzati i soccorsi, nonostante i vari viaggi del re nelle zone colpite. Il 14 gennaio vennero ripristinate le comunicazioni tra Avezzano e Roma grazie all’attivazione di un filo telegrafico. Alla stazione Termini cominciarono ad arrivare i treni con i feriti e i profughi. Un ruolo fondamentale nelle operazioni di soccorso lo svolsero i soldati che iniziarono ad arrivare sul posto e che, divisi in piccole squadre, cominciarono a scavare per estrarre i corpi dalle macerie, recuperare i morti e medicare i feriti.
Le prime testimonianze scritte sul terremoto furono proprio dei militari. Un comandante che arrivò per i soccorsi a Cese, vicino ad Avezzano, per esempio, raccontò:
«Giunti sul posto, constatammo che nessuna casa si era salvata, che il sindaco e 15 dei 16 consiglieri comunali erano periti e che su 1.300 abitanti solo 230 erano sopravvissuti. Nessuna autorità militare o civile era presente. Facilmente s’immagina lo stato di esasperazione dei superstiti. Le prime parole rivolteci furono di protesta e di rimbrotto, come se nostra fosse stata la colpa se fino a quel momento nessun essere umano aveva potuto soccorrere quello squallore e curare le piaghe che il rigore della stagione e il sudiciume avevano esasperate. Pregai un frate di interporre la sua autorità per esortare quegli infelici a tacere e ad attendere che il medico predisponesse gli strumenti e i materiali per le medicazioni. Bastò la notizia che un medico era tra noi per far tacere ogni voce, mentre rapidissimamente s’improvvisava un posto di medicazione e i feriti si allinearono senza più un gemito; nessuna gara per arrivare primi al soccorso, più d’uno cedette il posto al vicino, dicendo: “Va’ tu che stai peggio”. Si vide la bontà e robustezza del temperamento abruzzese. Una a una i feriti protesero le membra dilaniate, ma il chirurgo non riuscì a strappare un grido: qualche lacrima fu vista rotolare sulle guance abbronzate, qualche spasmo contrarre il volto, senza che il silenzio fosse rotto. L’ordine fu sempre ammirabile. A questa forza d’animo del popolo fu dovuto se, in quella sola serata, si poterono curare più di cento persone».
Tra i primi ad arrivare nelle zone del terremoto vi fu anche Luigi Orione, un prete che requisì un’automobile al re Vittorio Emanuele III, che era arrivato in visita, per trasportare i bambini rimasti orfani. L’episodio, e il suo incontro con il prete, è stato raccontato da Ignazio Silone in “Uscita di sicurezza” del 1965.
La Stampa riporta qualche numero sul terremoto: «Le statistiche ufficiali parlano di 32.610 vittime, di cui 10.700 ad Avezzano su una popolazione di 13 mila; almeno altre tremila persone sono morte per le malattie e gli stenti nei mesi successivi. (…) Fino all’aprile del 1917 il Genio Civile aveva demolito 3.913 case, puntellato 3.384 edifici e riparato altri 5.027. Le baracche di varia tipologia costruite, erano 21.225, alle quali si dovevano aggiungere 1.952 casette antisismiche». A tutto questo si deve aggiungere l’inizio della guerra, la guerra stessa e la crisi economica che seguì con un altissimo costo per le materie prime per l’edilizia e per la manodopera.
Le foto del terremoto
Il terremoto della Marsica venne documentato da una serie di foto scattate dall’ammiraglio dell’aviazione statunitense J. Lansing Callan, nato nel 1886 e morto nel 1958 che fu il rappresentante in Italia e in Inghilterra, dal 1914 al 1916, della Curtiss Aeroplane Co., un’azienda costruttrice di aerei. Nel gennaio del 1915 l’ammiraglio fu chiamato dalle autorità navali italiane per controllare la loro prima scuola aeronautica militare vicino a Taranto. Durante il trasferimento dal Lago di Como verso Taranto, sulla sua automobile, Callan venne a sapere del terremoto che aveva colpito Avezzano e la Marsica molto probabilmente mentre si trovava vicino a Roma. Accompagnato da due collaboratori e dall’autista decise di deviare il tragitto attraversando le montagne dell’Abruzzo e, una volta arrivato, documentò quello che era accaduto. Le immagini sono state donate dalla famiglia dell’ammiraglio nel 1976 all’US Geological Survey e sono rimaste sconosciute in Italia fino al 2000 quando uno studioso originario di Avezzano e residente in Canada, Ernesto Salvi, le scoprì.