Si vomita meno in aereo?
C'entra la qualità degli aerei e la nostra dimestichezza col volo, si chiede Slate, oppure le compagnie hanno fatto sparire i sacchetti per risparmiare?
di Daniel Engber – Slate
Una volta ho vomitato in aereo. Non è il mio ricordo di viaggio preferito ma mi è tornato in mente di recente durante un volo, quando mi sono accorto che nella tasca dello schienale del sedile di fronte al mio mancava qualcosa. Il catalogo con le cose in vendita c’era, la rivista di viaggio pure. E il sacchetto per contenere il vomito? Non pervenuto.
Non era la prima volta che non riuscivo a trovarlo. Ora ho questa sensazione sgradevole: che un oggetto così prezioso sia in declino. Potrebbe essere un altro modo escogitato dai grandi manager per risparmiare? Le compagnie aeree più grosse, dal canto loro, negano, negano e negano. Ho provato a parlare con i portavoce di alcune delle più importanti compagnie aeree americane, come American, Delta, JetBlue, Southwest e United: dicono tutte che i loro equipaggi continuano a sistemare un sacchetto a sedile per tutti i voli, come hanno sempre fatto. Un posto sprovvisto di sacchetto sarebbe l’eccezione, non la regola. È anche possibile che i sacchetti per il vomito sembrino meno diffusi a quelli che come me stanno male di rado. Li noto più raramente di quando ero piccolo forse perché adesso mi capita di avere la nausea meno spesso e anche perché oggi sono meno incline a quelle esplorazioni di sedili e ambienti frutto della noia mortale. Oggi i sacchetti sono lontani dagli occhi e dal pensiero.
O forse i sacchetti sono ancora in giro, ma è il vomito sugli aerei a essere in declino? Gli esperti condividono la mia sensazione: stiamo attraversando un periodo di grande transizione. «Sono anni che non vedo qualcuno utilizzare un sacchetto», ha detto Steve Silberberg, uno dei più attivi collezionisti di sacchetti per il vomito (ne possiede più di 2.500). «Sì, i sacchetti sono meno comuni di un tempo», dice anche Paul Mundy, un altro collezionista che vive in Germania. «L’ultima volta che ne ho visto uno è stato perché un passeggero l’ha espressamente richiesto. È l’ultimo che visto negli ultimi dieci anni», dice anche Brent Blue, un medico forense dell’aviazione e membro dell’Associazione medica aerospaziale.
Se sempre meno passeggeri si uniscono al club del vomito ad alta quota, le compagnie aeree ne sono sicuramente consapevoli. Immagino che tengano traccia dei costi per sostituire i sacchetti usati e che abbiano quindi idea della frequenza con cui le persone vomitano sugli aerei: ma tengono quei numeri segreti. Il portavoce di una compagnia aerea mi ha detto che condividere questi dati «solleverebbe questioni di privacy medica» (un altro esempio dell’interesse delle grandi aziende al benessere del consumatore). Così dobbiamo destreggiarci tra i dati pubblici, che però non sono molti. I migliori che sono riuscito a trovare vengono da una ricerca pubblicata nel 2000: il campione è di circa mille persone su 38 voli commerciali. Lo 0,5 per cento ha detto di aver vomitato in aereo e l’8,4 per cento di essersi sentito male.
Il buon senso suggerisce che in passato queste percentuali fossero molto più alte. Prima dell’invenzione delle cabine pressurizzate – una tecnica che mantiene la pressione dell’aria all’interno della cabina il più vicino possibile a quella atmosferica al livello del mare, per garantire la massima abitabilità per le persone e la massima efficienza per gli impianti – i piloti non potevano volare tranquillamente ad alta quota, sopra le condizioni atmosferiche. I primi aerei erano piccoli e leggeri per gli standard di oggi, ed erano molto più scossi dalle turbolenze. Anche i motori facevano fracasso e appestavano la cabina di gas di scarico. Questi problemi causarono un nuovo tipo di condizione medica, diagnosticata per la prima volta da un gruppo di ricercatori di Bordeaux, nell’aprile del 1911. «Il progresso ha sempre un prezzo; l’uomo paga un riscatto per tutte le sue avventure», scrissero Rene Cruchet e Rene Moulinier nella loro monografia del 1920. «La conquista dell’aria, oltre a numerosi pericoli, ha portato a una nuova malattia, una malattia che chiameremo mal d’aria».
Per arginarla, i primi equipaggi includevano spesso un’infermiera in divisa. Paul Mundy spiega che negli anni Venti qualche compagnia aerea europea distribuiva sacchetti per il vomito fatti di carta, che venivano poi lanciati fuori dal finestrino dopo l’uso. Alcuni aerei invece si servivano di ciotole o tazzine. Mick Oakey, direttore della rivista The Aviation Historian dedicata alla storia dell’aviazione, mi ha raccontato di un aereo con sedili di vimini: l’equipaggio inseriva una ciotola di porcellana in un canestro di bambù sotto ogni sedile. Un numero del 1935 della rivista aerea Flight descrive una scena con hostess che accorrono in cabina «con piccoli affascinanti sacchetti di cartapesta» per soccorrere i passeggeri dalla faccia verdastra. Il sacchetto per il vomito moderno – in grado di contenere ogni perdita – è apparso però nel 1949. L’inventore è Gilmore “Shelly” Schjeldahl, un ex soldato di fanteria, che ebbe l’idea di foderare di plastica i sacchetti e la propose alla fabbrica Bemis Bag Co. di Minneapolis. Inizialmente i manager dell’azienda erano scettici, ma si convinsero quando firmarono un contratto per i sacchetti con l’importante compagnia aerea Northwest Airlines. Schjeldahl — il cui figlio Peter ora scrive d’arte sul New Yorker – inventò molte altre cose, tra cui il primo satellite artificiale per telecomunicazioni, ma nessuna è più famosa del “sacchetto contro il mal d’aria“. «Non gli piaceva essere associato a quella cosa», spiega la vedova Charlene, che ha 97 anni. «È molto strano».
Negli anni in cui si diffuse il sacchetto, il vomito era già meno frequente. Nella metà degli anni Trenta un corrispondente della rivista Flight scrisse che il mal d’aria «un tempo era la rovina dei viaggi aerei» ma che «ora in proporzione è molto raro». Nel 1937 la stessa rivista scriveva che «in questi giorni è praticamente scomparso», dato che i problemi dei primi voli erano stati per lo più risolti. Meno di dieci anni dopo, e comunque quattro anni prima dell’invenzione del sacchetto di Schjeldahl, Flying scriveva che lo 0,2 per cento dei passeggeri si sentiva male in volo. Nel 1946 il mensile di divulgazione scientifica Popular Science scrisse che si trattava dello 0,3 per cento.
Paragonando quei dati a quelli degli anni 2000, sembra che la frequenza della nausea sia crollata dagli anni Cinquanta e sia rimasta vicino allo zero da allora. I dati però sono così pochi e il metodo per raccoglierli così poco chiaro che nessuno studioso li considererebbe definitivi. Alcuni esperti di medicina legata al volo sostengono che il mal d’aria continui a diminuire e che il miglioramento della qualità degli aerei e dei voli potrebbe non essere l’unica spiegazione.
Quali altri fattori potrebbero esserci? Forse soffriamo meno perché voliamo più spesso. Le compagnie aeree statunitensi trasportano oltre 750 milioni di passeggeri all’anno, tre volte di più rispetto a 30 anni fa. È anche possibile, penso, che la frequenza del malessere abbia a che fare con qualcosa di più profondo, un cambiamento di mentalità e dell’atteggiamento in volo. Non è un’idea scema come sembra. Nel Ventesimo secolo alcuni dottori attribuivano la nausea alla personalità del passeggero. Cruchet e Moulinier dicevano che «lo strapazzo psichico» del viaggio aereo poteva portare a nevrosi. Nel 1947 uno studente della Columbia University condusse uno studio sulla psicologia della nausea legata al movimento. In un esperimento faceva ruotare i soggetti, dandogli scosse elettriche: più erano ansiosi mentre giravano più erano nauseati.
Il mal d’aria ha un vecchio parente nato molti anni prima e ora spesso dimenticato. «Il mal di treno» un tempo era così diffuso da richiedere alcune precauzioni superstiziose: alcuni dicevano che si poteva prevenire portando una patata irlandese in una valigetta, o infilando il giornale sotto la camicia. I viaggi ferroviari erano all’epoca piuttosto pericolosi, gli incidenti erano così frequenti e terrificanti che i vittoriani inventarono una nuova espressione – “lo shock da ferrovia” – per descrivere una malattia simile al disturbo post traumatico da stress, di cui soffrivano i sopravvissuti agli incidenti. Recentemente Carey Balaban dell’Università di Pittsburgh ha mostrato che le reti neurali che controllano l’ansia e la nausea interagiscono nella stessa parte del cervello, chiamata area parabrachiale: «i disturbi dell’ansia e i disturbi dell’equilibrio vanno di pari passo», spiega.
Quindi può essere che ogni nuovo mezzo di trasporto porti con sé il suo tipo speciale di nausea. Se così fosse, una tecnologia invecchiando renderà il malessere meno intenso. Quando volare si è trasformato da esperienza divina a esperienza comune, i sacchetti per il vomito sono diventati obsoleti. Ora sono cimeli dell’epoca d’oro dell’aviazione, un tempo in cui gli aerei avevano il potere di agitarci e ci facevano pagare un prezzo per l’avventura che offrivano. Quale sarà la prossima nausea legata al movimento? Potrebbe riguardare i recenti modelli di console per videogiochi, con le simulazioni di realtà virtuale. Per quanto riguarda il sacchetto del vomito, il suo destino appartiene alla prossima frontiera dei viaggi umani, come contenitore di vomito lunare o altre emissioni spaziali.
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