Otto belle canzoni di Pino Daniele
Una playlist del cantautore che fece con Napoli e con la musica italiana cose che ancora non aveva fatto nessuno
La morte di Pino Daniele avvenuta a Roma nella notte scorsa è oggi la notizia di apertura su gran parte dei principali siti di news italiani. Pino Daniele aveva 59 anni ed era uno dei più popolari e apprezzati cantautori italiani: con la sua voce molto riconoscibile aveva raccontato Napoli meglio di molti altri e aveva ottenuto grandi successi in giro per il mondo. Nel suo libro Playlist, la musica è cambiata, il peraltro direttore del Post Luca Sofri aveva scelto otto belle canzoni di Pino Daniele, tra le tante.
Poi è invecchiato, come tutti noi, e i suoi discografici gli saranno stati addosso perché continuasse a stravendere con delle ballate un po’ sdolcinate per giovani innamorati (certo, potevano spendere due lire in più per le copertine). Ma le cose che aveva fatto prima con Napoli e con la musica italiana, non le ha fatte nessuno. E poi è sempre stato uno dei più umili e ammodo nel capriccioso mondo dei cantautori.
C’è quella vecchia barzelletta:
– Perché sulle macchine dei carabinieri napoletani c’è scritto “Pino Daniele”?
– Beh, e gli americani, perché ci scrivono “Police”?
‘Na tazzulella ‘e cafè (Terra mia, 1977)
Quando arrivarono i 99 posse e tutto quel folklore là, Pino Daniele aveva già detto su Napoli quello che c’era da dire, e in gran musica e parole. Qui, sui disastri occultati sotto il pittoresco della tazzulella ‘e cafè:
Na’ tazzulell’e cafè, e mai niente fanno sapè:
nui ce puzzamm’ e famme, o sanne tutte quanne
e invec’ e c’aiuta c’abboffan’ e cafè.
Napule è (Terra mia, 1977)
“’Na tazzulella ‘e cafè” è il lato B – the dark side of the moon – del 45 giri, e di Napoli. Il lato A è una cosa che sbaraglia tutta la retorica ‘o- sole-mio-eccetera, senza arretrare di un millimetro dalla linea della canzone sentimentale e commovente, e napoletana: il più bel pezzo che sia mai stato scritto per una città, più di “New York state of mind” di Billy Joel.
Basta ‘na jurnata ‘e sole (Pino Daniele, 1979)
In realtà “‘o sole mio” sarebbe anche un concetto eterno e convincente: bisogna solo saperlo dire, parlare come si magna, cantare come si magna, senza quel tono declamatorio e solenne, gravato da quel presuntuoso aggettivo possessivo (“mio”? “mio” de che? Che, è tuo, il sole?). Pino Daniele lo sa, e sa anche cos’è la ciliegina sulla torta di una giornata di sole: che qualcuno ti venga a prendere.
Nun me scoccià (Nero a metà, 1980)
Che lui avesse un debole per il blues lo si è sempre saputo. Questo è un blues classicissimo, con un testo che se il blues fosse nato a Napoli, sarebbe stato tipico, alla pari del vecchio Mississippi. Coi tempi che corrono, dovrebbero scriverlo sulla schermata iniziale del telefonino: “A che serve sta’ accussì, semp’ ‘ncazzato ma po’ pe’ chi?”.
Quanno chiove (Nero a metà, 1980)
Simmetrica a “Basta ‘na jurnata ‘e sole”, qui è la pioggia che può cagna’ quacche cosa. Perché lei abita al piano di sopra, ma lavora al marciapiede di sotto, Bella, bella.
Tutta n’ata storia (Bella ‘mbriana, 1982)
È che Pino Daniele sotto sotto è uno degli Earth, Wind & Fire.
Quando (Sott’o sole, 1991)
«Mi ha chiamato Pino» – disse una volta Massimo Troisi in un’intervista – «e m’ha ritt’: “Sient’ Massimo, agg’ fatt’ ‘na canzone: pe’ piacere, me vuo’ fa’ nu’ film?». Il film era Pensavo fosse amore invece era un calesse.
Resta, resta cu’ mmè (Non calpestare i fiori nel deserto; 1995)
Il meglio lo aveva già fatto prima, Pino Daniele. Da un certo punto in poi passò di moda, e le sue cose diventarono meno toste e più stucchevoli, senza neanche più il paracadute del napoletano. Ma la stucchevolezza è solo un inciampo per le scale della tenerezza e, se uno sta attento a non inciampare, gli vengono canzoni così.