Incapace di intendere e di volere

Il Corriere spiega perché è giusto che un uomo sia libero 5 anni dopo aver ucciso la moglie

Luigi Ferrarella, uno dei più importanti giornalisti italiani che si occupano di cronaca giudiziaria, ha spiegato sul Corriere della Sera perché è stato giusto liberare dopo cinque anni di prigione un uomo che aveva ucciso sua la moglie con 71 coltellate.

Uccide la moglie con 71 coltellate e dopo meno di 5 anni è libero da qualunque vincolo o pendenza giudiziaria: pare perfetto per lo scandalismo d’accatto, e invece questo esito interpella le coscienze nel profondo. È «giusto» di civiltà giuridica, ma anche spiazzante. Disorienta, eppure sta nelle regole del codice. È un successo clinico per i medici dell’uxoricida, e una scommessa su di lui vinta dall’apparato giudiziario; ma proprio per questo è nel contempo anche uno choc umano e una ferita che si riapre per la sbigottita famiglia della moglie uccisa.

Perché ora la dichiarazione di «cessata pericolosità sociale», e con essa la fine della misura di sicurezza in Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), riguarda il marito penalmente assolto nel 2010 in Assise in quanto «incapace di intendere di volere» (e dunque «non imputabile») al momento in cui nel 2009 uccise la coetanea 42enne moglie.

L’uomo (non si daranno qui dati che agevolino l’identificazione né sua né della famiglia della vittima) inizia quell’anno a soffrire di vissuti persecutori e ideazioni ossessive incentrate sulla paura di fare del male ai familiari. Va in cerca di cure, chiede anche di essere ricoverato, ma dai dottori riceve solo prescrizioni di ansiolitici mentre l’insonnia invincibile lo stravolge e una patologica depressione gli altera la percezione delle cose. Finché un giorno, in una città del Nord Italia, assassina la moglie con 48 coltellate al torace, 10 al braccio sinistro, 11 al destro, 2 alla gamba sinistra.

Sia il consulente del gip, sia quello dei legali Mocchi e Patrucchi della famiglia della vittima, convergono su una diagnosi di solo «parziale incapacità di intendere e volere», la stessa ad esempio del picconatore a morte di tre persone per strada a Milano, Adam Kabobo, «sceso» così a 20 anni di pena. Ma al processo la Corte d’assise ritiene necessario un perito d’ufficio, che, pur contestato nelle premesse dal pm Giancarla Serafini, conclude invece per un «disturbo narcisistico della personalità» esploso in «episodio depressivo maggiore grave con sintomi psicotici, ad andamento cronico e ingravescente, che ha determinato la sospensione delle capacità critiche e conseguente abolizione delle capacità volitive».

Un reato è imputabile solo a chi abbia inteso e voluto commetterlo: ecco perché la Corte d’assise nel novembre 2010, di fronte a una valutazione clinica di «totale incapacità di intendere e di volere», assolve l’uomo «perché non imputabile» all’epoca del fatto, ordinandone però la misura di sicurezza in un Ospedale psichiatrico giudiziario fin tanto che sia diagnosticato «socialmente pericoloso» per la collettività.

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