Il caso della donna morta cerebralmente e incinta, in Irlanda
Un tribunale ha riconosciuto con una sentenza "storica" il diritto a interrompere i trattamenti che la tengono in vita
Venerdì 26 dicembre l’Alto Tribunale di giustizia di Dublino, in Irlanda, ha riconosciuto ai familiari di una donna cerebralmente morta e incinta di 18 settimane il diritto a interrompere i trattamenti medici che la tengono artificialmente in vita. La donna era morta il 9 dicembre scorso a seguito di una caduta. I tre giudici hanno accolto la richiesta dei familiari e hanno anche evidenziato il bisogno di chiarire le linee guida per i medici riguardo l’aborto in casi del genere. La sentenza è stata definita “storica” da alcuni giornali: pone infatti alcune questioni rispetto alla Costituzione irlandese, il cui ottavo emendamento riconosce uguali diritti alle madri e ai figli non ancora nati (temi di questo genere hanno già da tempo portato molti attivisti a chiedere un referendum nazionale). Finora i medici della donna – poco meno che trentenne, sposata e già madre di due bambini – avevano rifiutato di interrompere i trattamenti per paura di poter essere accusati in base alle rigidi leggi irlandesi sull’aborto.
Il giudice Nicholas Kearns ha detto che in queste circostanze – molto particolari – la decisione è nell’interesse del feto e che «si dovrebbe autorizzare a discrezione del personale medico l’interruzione del sostegno medico artificiale fornito in questo tragico e sfortunato caso». Kearns ha aggiunto: «Mantenere e proseguire l’assistenza alla madre priverebbe lei di dignità e sottoporrebbe suo padre, suo marito e i suoi figli a una sofferenza inimmaginabile per assecondare un esercizio inutile cominciato dai medici soltanto per paura di possibili conseguenze». Il padre della donna cerebralmente morta, sostenuto dal marito di lei, ha detto in tribunale: «Mia figlia è morta, e ci è stato detto che le possibilità di sopravvivenza per il feto sono minime. Voglio che le sia garantita dignità e che possa riposare in pace». Secondo i medici sentiti dai giudici, il corpo della donna sta diventando un ambiente letale per il feto, a causa delle infezioni, della febbre e dell’elevata pressione sanguigna.
In sostanza, la questione legale è sorta quando i medici, per timore di essere accusati di negligenza o persino omicidio, si sono rifiutati di staccare le macchine necessarie per l’ossigenazione, il flusso sanguigno, l’alimentazione e la raccolta del materiale di rifiuto della donna. Uno dei medici chiamati a testimoniare in tribunale ha detto che non c’era accordo tra i medici riguardo il modo in cui debba essere intesa la legge in casi del genere. Un portavoce del servizio sanitario nazionale ha ammesso venerdì che occorrerebbe una maggior grado di chiarezza sulle linee guida per i medici, e che la Costituzione non considera il caso di una persona cerebralmente morta tenuta in vita soltanto perché è incinta. Leo Varadkar, ministro della Salute irlandese, è favorevole alla creazione di un maggior numero di eccezioni mediche al divieto di abortire in Irlanda, e ha detto che il governo studierà la sentenza.
Tutti i sette specialisti che hanno fornito consulenza legale nelle settimane scorse concordano nel definire “minime” le possibilità di sopravvivenza per il feto: «Non credo che questo bambino non ancora nato possa sopravvivere», aveva detto in tribunale uno specialista di terapia intensiva, Brian Marsh, sostenendo che dal punto di vista della scienza medica la donna è un cadavere. In particolare i medici ritengono altamente improbabile che il feto possa sopravvivere per gli altri due mesi di necessario sviluppo intrauterino. Alcuni di loro hanno anche detto che per via della reazione del corpo ai trattamenti ricevuti, la donna è irriconoscibile dalla foto che si trova vicino al suo letto, e hanno segnalato che come parte dei trattamenti sperimentali le sono state date alcune medicine il cui uso sulle donne incinte non è autorizzato.
Un altro medico sentito dai giudici, l’ostetrico Peter Boylan, ha detto che si tratta di un “territorio inesplorato” e che la rimozione dell’ottavo emendamento sarebbe di aiuto. L’ottavo emendamento della Costituzione irlandese esiste dal 1983 ed è frutto di un referendum voluto e ottenuto da alcuni gruppi religiosi e antiabortisti dell’epoca. L’emendamento «riconosce il diritto alla vita di un non ancora nato e, nel rispetto della parità di diritto alla vita della madre, gli garantisce, a ogni effetto di legge, la difesa e il rispetto di quel diritto». Prima che il tribunale comunicasse la sentenza, l’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin aveva indirettamente suggerito che un’eventuale decisione di interrompere i trattamenti per tenere in vita la donna non sarebbe stata da biasimare: «Non vi è alcun obbligo di usare mezzi straordinari per tenere in vita una persona. Vale sia per una donna che per il bambino. Una madre non è un’incubatrice».
Al momento, in certi casi limitatamente simili a questo, le leggi irlandesi consentono l’aborto soltanto quando è ritenuto necessario dai medici per salvare la vita di una paziente incinta, e quindi solo quando la gravidanza metta a rischio la vita della donna. Questa eccezione è stata decisa con una legge approvata l’anno scorso dal parlamento dopo che una donna di 31 anni era morta per un’infezione al sangue: aveva chiesto di interrompere la gravidanza alla diciassettesima settimana, e i dottori – dopo aver scoperto che stava per abortire spontaneamente – si erano rifiutati di rimuovere il feto perché il suo cuore continuava a battere. Si stima che ogni anno circa 4 mila donne irlandesi vadano ad abortire in Inghilterra, dove l’aborto è legale dal 1967.
Una manifestante contro l’aborto regge un cartello durante una manifestazione di protesta di fronte al parlamento irlandese a Dublino, il 10 luglio 2013.
(PETER MUHLY/AFP/Getty Images)