La tregua del Natale 1914
Più di un secolo fa migliaia di soldati impegnati nella Prima guerra mondiale andarono a stringere le mani e scambiarsi doni con i propri nemici
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
Nella notte del 13 dicembre 2014 i cosiddetti “Cyborg”, il reparto dell’esercito ucraino che da mesi difende le rovine dell’aeroporto di Donetsk, si sono accordati con i ribelli filo-russi per una breve tregua. Nel silenzio improvviso, a dieci gradi sottozero, soldati infreddoliti e con le barbe lunghe sono usciti dalle trincee aggrovigliate intorno alle rovine. Alcuni di loro avevano appena concluso un turno di due settimane al fronte e ora trascinavano i piedi verso un camion in attesa su uno spiazzo circondato di edifici sventrati. Un comandante dei ribelli circondato di osservatori internazionali si è avvicinato al camion e ha stretto la mano ad un ufficiale ucraino. I due uomini, tutti e due poco più che trentenni, hanno parlato per qualche minuto del loro dovere di soldati che li obbliga a combattere una guerra fratricida. Poco prima che il camion si allontanasse, il comandante ribelle ha domandato ai soldati ucraini in partenza: «Ritornerete?». «Di sicuro!», gli ha risposto in una nuvola di vapore uno dei soldati ucraini.
Così come a Donetsk, esattamente un secolo fa durante un conflitto di una scala immensamente più grande, decine di migliaia di uomini attraversarono la terra di nessuno e andarono a stringere le mani ai loro nemici. Cantarono canzoni, si scambiarono regali e giocarono a calcio. Poiché anche loro erano soldati a cui spettava soltanto di obbedire, poche ore dopo ritornarono alle loro trincee e impugnarono nuovamente le armi. L’episodio è rimasto per sempre nella storia come “la tregua di Natale del 1914”, una grande parentesi di umanità in quello che già allora era diventato il più crudele e sanguinoso conflitto nella storia dell’uomo.
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Meno di sei mesi prima, nel luglio del 1914, durante la crisi diplomatica nata in seguito all’assassinio dell’Arciduca Ferdinando a Sarajevo, in Europa c’era poco entusiasmo per il conflitto che sembrava si stesse preparando. Ma quando ai primi di agosto i giornali titolarono “GUERRA!” a nove colonne, in quasi tutti i paesi belligeranti scoppiarono manifestazioni e dimostrazioni patriottiche. Nei villaggi isolati e nelle campagne, dove “guerra” significava soprattutto perdere braccia utili al lavoro, ci fu poco entusiasmo, ma in quasi tutte le città europee gli uffici di reclutamento si riempirono di giovani entusiasti e in Germania intere fabbriche si ritrovarono improvvisamente senza operai perché erano tutti o quasi andati ad arruolarsi. Paul Hub, un ragazzo di 23 anni che viveva vicino a Stoccarda, si arruolò insieme ai suoi due fratelli subito dopo essersi fidanzato con la sua ragazza, che ne aveva 21.
La guerra sembrava esercitare un fascino soprattutto sui più istruiti, sugli artisti e sui più giovani. Intere classi dei prestigiosi politecnici e delle migliori università tedesche si arruolarono, formando battaglioni di compagni di classe, a volte guidati dai loro stessi professori. Il filosofo Ludwig Wittgenstein, che all’epoca aveva 25 anni, si arruolò nell’esercito austriaco; il pittore francese Paul Maze, 27 anni, dovette rinunciare quando gli dissero che l’esercito aveva raggiunto la quota massima di volontari che poteva accettare. Maze, che aveva frequentato le scuole in Inghilterra ed era bilingue, non si arrese e si arruolò come volontario nell’esercito britannico. Anche se in quasi tutti gli eserciti il limite minimo per arruolarsi era 18 anni e quello per essere inviati al fronte era 19, in moltissimi mentirono sulla propria età. Si calcola che nel corso della guerra 250 mila inglesi con meno di 18 anni abbiano combattuto al fronte. Studi su singoli reggimenti hanno dimostrato che spesso più di un terzo dei soldati aveva 20 anni o meno.
Nell’agosto del 1914 i giornali erano pieni di appelli alla salvezza della patria e quasi tutti si aspettavano una guerra breve che sarebbe terminata prima della fine dell’anno. Alcuni “esperti” scrissero sui giornali che le nuove armi moderne avrebbero reso il conflitto molto più umano e meno sanguinoso di quelli avvenuti in passato. In un soleggiato pomeriggio di agosto, in coda con altri ragazzi all’ufficio reclutamento di Trafalgar Square, la guerra sembrava a molti davvero poco più di una bella avventura estiva da affrontare insieme ai propri amici. Nei primi giorni di agosto, dai treni che portavano i soldati-ragazzi alle posizioni dalle quali avrebbero cominciato ad avanzare contro il nemico, si sentivano cantare canzoni e gli uomini avevano fiori legati agli elmetti e infilati tra i capelli. Non potevano immaginare che a Natale sarebbero stati ancora al fronte, senza più fiori e immersi nel fango gelido fino alle ginocchia. Avrebbero cantato di nuovo, ma con uno spirito molto diverso.
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I generali di tutti i paesi belligeranti avevano in mente una guerra breve, ma nessuno aveva una tabella di marcia per la vittoria così precisa e organizzata come quella dei tedeschi. La Germania aveva iniziato la guerra con un piano chiaro e apparentemente infallibile: il “Piano Schlieffen”, o Aufmarsch II West. Era stato preparato dieci anni prima da un generale tedesco dai baffi arricciati all’insù che aveva dato al piano il suo nome, il conte Alfred Von Schlieffen. I suoi successori lo avevano aggiornato di anno in anno, fino al punto in cui teneva conto di ogni particolare: dagli orari dei treni che avrebbero portato le truppe al fronte, ai dettagli sulla quantità di grano, carne e schnapps di cui avrebbero avuto bisogno i soldati. Anche se i dettagli logistici erano abbastanza complicati da far impazzire qualsiasi ufficiale, l’idea centrale del piano era estremamente semplice. Il suo scopo principale era trarre in salvo la Germania dalla prospettiva di combattere una guerra su due fronti, a ovest contro Francia e Regno Unito, ad est contro la Russia. Nel piano veniva stabilito che l’80 per cento dell’esercito sarebbe stato concentrato ad ovest. La Francia avrebbe dovuto essere sconfitta entro sei settimane e successivamente messa nelle condizioni di non rappresentare mai più una minaccia per l’impero germanico. A quel punto l’esercito si sarebbe riversato ad est, contro la Russia.
Per ottenere questo risultato, il generale Schlieffen aveva elaborato la più ambiziosa manovra di aggiramento nella storia della guerra. Invece che combattere i francesi frontalmente, l’esercito tedesco avrebbe mosso la sua ala destra (quella più a nord, quindi) attraverso il neutrale Belgio. Le truppe, circa un milione e mezzo di uomini, quasi metà di tutto l’esercito tedesco, sarebbero quindi calate verso sud in direzione di Parigi. In questo modo le truppe tedesche si sarebbero trovate alle spalle dell’esercito francese e lo avrebbero separato dalla sua capitale. I francesi a quel punto sarebbero stati costretti a una battaglia campale in condizioni di svantaggio e sarebbero stati sgominati. Perché il piano riuscisse era fondamentale che l’ala destra dell’esercito tedesco fosse estremamente numerosa. La “dottrina della destra” predicava che ogni sforzo venisse consacrato all’aggiramento, mentre le truppe al centro dello schieramento avrebbero dovuto restare sulla difensiva e forse anche arretrare, in modo da attirare i francesi nella trappola. Quando Schlieffen morì, si dice che le sue ultime parole, rivolte ai familiari e agli ufficiali che lo circondavano sul letto di morte, furono: «Rinforzate l’ala destra».
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Il 19 novembre del 1914 la guerra era cominciata da quindici settimane e né la Francia né la Russia sembravano vicine alla sconfitta. Quel giorno il comandante dell’esercito tedesco e Theobald von Bethmann-Hollweg, cancelliere della Germania, ebbero un colloquio piuttosto agitato per essere entrambi due austeri aristocratici prussiani. Il generale Von Falkhenyem era irriconoscibile rispetto a un paio di mesi prima, quando aveva sostituito il generale Von Moltke, reso inabile al comando da un collasso nervoso. In una fotografia del 1913 Falkenhayn appare con i capelli tagliati corti e dritti, precisi come le setole di una spazzola. La fronte è leggermente corrucciata, come si conviene a un generale prussiano. Lo sguardo è gelido e la bocca, stretta e piegata verso il basso, è sormontata da un paio di baffi perfettamente arricciati all’insù. In poco tempo la fatica del comando pretese anche da lui un prezzo elevato. In una fotografia scattata un paio di anni dopo Falkenhayn è un uomo completamente diverso. I baffi, folti e bianchi, sono mestamente piegati verso il basso, la bocca sembra quasi atteggiata a un pallido sorriso e gli occhi sono acquosi e smarriti. Falkenhayn, fotografato sullo sfondo di alcune piante, sembra quasi un anziano indifeso nel giardino della sua casa di riposo.
Quando il generale si recò all’incontro con il cancelliere, era molto più simile alla foto del 1917 che a quella del 1913. Su di lui gravavano non soltanto il peso psicologico di due mesi di combattimenti particolarmente duri, ma anche quello del messaggio che aveva deciso di portare al suo superiore. Falkenhayn chiese al cancelliere di cercare la pace. Disse che l’esercito tedesco non era più in grado di vincere la guerra né ad ovest, contro gli eserciti franco-inglesi, né a est, contro l’esercito russo. L’unico modo che aveva l’Impero di sopravvivere era concludere una pace separata con almeno uno dei suoi nemici, con la Russia, secondo l’opinione di Falkenhayn. Era la prima volta nella storia che un capo dell’esercito prussiano chiedeva al suo superiore di cercare la pace con i propri nemici. Nessun messaggio avrebbe potuto sconvolgere di più il cancelliere. Poche settimane prima era stato in visita al fronte nel settore di Ypres, in Belgio ed era rimasto entusiasta. Attorniato dal suo nutrito staff, Bethmann-Hollweg si era fatto portare in un punto dove alcuni granatieri si preparavano a partire per il fronte. «Ah, è proprio qui che desideravo essere: in un posto e in un momento in cui posso davvero dare ai nostri ragazzi die Letzte Ölung» – l’ultimo olio, l’unguento con il quale i gladiatori si bagnavano prima dello scontro. Ascoltando le parole di Falkenhayn e guardando il suo volto segnato dalla fatica, il cancelliere non poté fare a meno di chiedersi che cosa fosse andato storto.
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Lo storico Eric J. Hobsbawn ha diviso gli ultimi due secoli del secondo millennio in due periodi ben definiti: un “lungo Ottocento”, che comincia nel 1789 e finisce nel 1914, e un “corto Novecento” – il “secolo breve” – che comincia nell’agosto del 1914 e finisce nel 1991 con la caduta dell’Unione Sovietica. In questa teoria lo scoppio della Prima guerra mondiale diventa la cerniera tra due epoche e due mondi differenti: da un lato l’Ottocento del romanticismo e della Belle Époque, dall’altro il Novecento dell’industria e delle Guerre Mondiali. In pochi campi dell’esperienza umana questa frattura si vide con più chiarezza che nell’arte della guerra. Quando nei primi giorni di guerra i governi europei inviarono le lettere di richiamo a milioni di loro cittadini, gli eserciti avevano ancora un fascino napoleonico. Gli ufficiali portavano al fianco spade e sciabole e spesso conducevano i loro uomini all’attacco dalla sella di un cavallo. La cavalleria era un’arma importante dell’esercito e nonostante i cavalleggeri avessero in genere una carabina legata alla sella, la loro arma principale era ancora la lancia o la sciabola. I corazzieri francesi, addirittura, indossavano armature lucide e scintillanti elmi d’ottone.
Nel 1914 nessun esercito aveva dotato i suoi soldati di elmetti d’acciaio. Il Pickelhaube dei tedeschi, il famoso elmetto chiodato, era fatto di cuoio e tessuto, mentre francesi e gli inglesi indossavano dei kepì di tessuto (solo nel 1915 cominciarono ad essere distribuiti elmetti moderni). La dottrina offensiva non era molto diversa da quella che era state usate a Gettysburg, mezzo secolo prima, durante la Guerra Civile Americana. I soldati si allineavano in lunghe file, spalla contro spalla, inastavano sui loro fucili le baionette e si lanciavano all’assalto, prima camminando, per non perdere la coesione della formazione, e poi, a poche centinaia di metri dal nemico, di corsa, con i fucili puntati in avanti. Spesso la prima parte dell’avanzata veniva accompagnata da bande musicali che suonavano marce militari.
In nessun esercito il romanticismo ottocentesco raggiungeva i livelli che toccava in quello francese. Nel 1870 l’esercito prussiano aveva umiliato la Francia e conquistato due regioni francofone, l’Alsazia e la Lorena. «Y penser toujours, n’en parler jamais», «pensarci sempre, non parlarne mai», aveva detto di quella perdita il primo ministro Léon Gambetta. Gli alti comandi francesi e l’opinione pubblica erano posseduti dallo spirito della révanche, il mistico ideale della rivincita. Ma le ambizioni del paese non corrispondevano alla sua forza. La Germania era un paese più ricco e più popoloso della Francia e poteva schierare eserciti più grandi e meglio armati. Per vincere una guerra in queste condizioni i generali francesi avevano elaborato una teoria che si trovava a metà strada tra la dottrina militare e l’atto di fede. L’esercito francese avrebbe vinto grazie al suo spirito morale superiore: prendendo l’iniziativa sin dal primo giorno di conflitto, le armate francesi si sarebbero lanciate in una serie di assalti che avrebbero lasciato il nemico senza respiro. La superiorità numerica non sarebbe servita a nulla contro l’élan, lo slancio vitale ed entusiasta delle truppe francesi.
Questa dottrina quasi spirituale aveva parecchi riflessi pratici sull’organizzazione dell’esercito. Ai soldati non venivano distribuite pale e altri attrezzi da scavo, nel timore di creare un incentivo a fermarsi e interrompere l’offensiva. Le compagnie erano dotate di poche mitragliatrici in confronto a inglesi e tedeschi perché erano considerate armi ingombranti, utili soltanto a rallentare l’avanzata. L’artiglieria era tragicamente a corto di cannoni pesanti, quelli che negli anni successivi si sarebbero rivelati i veri macellai del campo di battaglia – il 60 per cento dei morti e dei feriti nella guerra fu causato dall’artiglieria. Ma dove l’incantesimo che aveva sedotto i generali francesi si faceva più sentire era nelle uniformi dei loro uomini. Come se il tempo si fosse fermato all’ultima umiliante sconfitta, la divisa dell’esercito francese era rimasta invariata dal 1870. Mentre gli altri eserciti del continente avevano adottato uniformi dai colori spenti per aiutare i loro uomini a mimetizzarsi, i francesi erano ancora orgogliosamente vestiti con la vivacità dei colori del Secondo Impero: pastrani blu e cappelli e pantaloni rosso fuoco. I pantaloni causarono un vero e proprio dibattito nei primi anni Dieci quando alcuni ufficiali dello stato maggiore provarono a introdurre una nuova uniforme che eliminasse il rosso fuoco dalla divisa. La polemica finì sui giornali, dove vecchi generali in pensione tuonarono contro quell’innovazione che avrebbe eliminato uno degli elementi cardine della superiorità morale dei francesi. Il dibattito arrivò anche in Parlamento, dove il ministro della Guerra condusse un’accorata difesa dei pantaloni rossi che si concluse con l’esclamazione: «Le pantalon rouge c’est la France!». Le sue parole misero fine al dibattito e l’esercito francese combatté fino alla metà del 1915 con le sue uniformi così simili a quelle usate dagli uomini di Napoleone a Waterloo, esattamente un secolo prima.
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«Che cosa è andato storto?», si chiedeva il cancelliere tedesco quando a più di tre mesi dall’inizio del conflitto l’esercito tedesco non sembrava nemmeno vicino alla vittoria. Una risposta era che gli apostoli di Schlieffen non erano stati all’altezza del loro maestro. La poderosa ala destra era stata indebolita per rinforzare il centro e la grande manovra – la più complicata operazione militare mai tentata fino ad allora – fu mal coordinata. Alla fine dell’agosto 1914, quando la grande massa grigia dell’esercito tedesco stava ruotando per compiere il passo finale del suo aggiramento, venne colpita sul fianco da un esercito che i francesi avevano radunato in tutta a fretta a Parigi. I taxi della città, requisiti dall’esercito, servirono a portare sul fronte della Marna migliaia di uomini. Il meccanismo attentamente studiato si inceppò e il piano Schlieffen fallì. Fu in quel momento che Falkenhaym – i suoi baffi ancora orgogliosamente arricciati all’insù – prese il comando dell’esercito. Cercò di salvare il salvabile, tentando di allargare la manovra aggirante e spingendo il suo esercito verso nord-ovest, dove c’erano ancora quasi 150 chilometri di territorio libero prima di arrivare al Canale della Manica. Si scatenò così la “corsa verso il mare”, una gara che però si rivelò inutile. Francesi, inglesi e belgi chiusero quello spazio prima che i tedeschi potessero compiere il loro aggiramento.
C’era anche un’altra risposta, una che aveva a che fare con le armi e con le bande musicali. Già all’epoca di Gettysburg e delle Guerre di Indipendenza italiane si era scoperto quanto potesse essere sanguinoso marciare in campo aperto, spalla contro spalla, con le bandiere al vento davanti a un nemico ben trincerato. Nella battaglia di Solferino, nel 1859, cinquemila soldati furono uccisi in questa maniera e il campo di battaglia coperto di morti e feriti fece nascere ad Henry Durant l’idea di fondare la Croce Rossa. Nel 1914 due nuove invenzioni avevano reso quelle tattiche semplicemente suicide. Oramai tutti gli eserciti del mondo erano dotati di mitragliatrici, all’epoca attrezzi ingombranti che sembravano più macchinari industriali che armi. Capaci di sparare tra i 500 e i 600 colpi al minuto, queste armi erano in grado da sole di generare il volume di fuoco di un’intera compagnia di un centinaio di fucilieri. “Falciare” è il verbo che si legge più spesso nelle descrizioni degli effetti di queste armi sugli attacchi compatti compiuti dagli eserciti nell’estate e autunno del 1914. Accanto alle mitragliatrici e a completare il loro potere distruttivo, cominciò a comparire sempre più spesso il filo spinato. Fatto d’acciaio e dotato di punte acuminate, veniva sistemato grazie a sostegni di legno e ferro per centinaia di metri davanti alle postazioni e costituiva una barriera difficile da superare per qualunque fante. L’immagine di un soldato rimasto impigliato nel filo spinato e fulminato dal fuoco di una mitragliatrice divenne un simbolo dell’intera guerra.
Mentre ad agosto queste novità non avevano ancora mostrato tutto il loro potenziale, dalla metà di settembre e nel corso di novembre generali e soldati cominciarono a capire che qualcosa era cambiato. La sconfitta della Marna impose una pausa ai combattimenti e, prima che cominciasse la “Corsa verso il mare”, i fronti si coagularono. I soldati, lasciati fermi nella stessa posizione per settimane, scavarono trincee, posizionarono le loro mitragliatrici in maniera strategica e stesero barriere di filo spinato per proteggersi. La guerra di movimento pensata da Schlieffen si stava trasformando nell’incubo che avrebbe accompagnato i combattenti per i successivi quattro anni: la guerra di trincea. Quando l’esercito di Falkhenyam cominciò a correre verso la Manica si trovò di fronte a un numero crescente di questo tipo di nuove difese, che divenivano sempre più fitte e più solide dopo ogni attacco. A Ypres, pochi giorni prima della visita del cancelliere il 9 novembre, una formazione appena arrivata al fronte si era lanciata all’attacco degli inglesi guidata dalla banda musicale. Fu un massacro, e il giorno dopo la banda venne sciolta e i musicisti furono riassegnati all’unità come semplici fanti.
In uno di questi attacchi, avvenuto tra il 21 e il 24 ottobre, Falkenhaym lanciò all’assalto due divisioni, in tutto circa 30 mila soldati. Un terzo delle truppe era costituito da volontari, quegli studenti che dalle aule universitarie avevano risposto con entusiasmo alla chiamata alle armi. Interi battaglioni erano composti da compagni di classe di 21, 22 e 23 anni. Erano ragazzi giovani, pieni di ardore per la madrepatria, ma con poco addestramento alla guerra e ancora meno a quella particolare forma di guerra moderna che stava cominciando a nascere proprio in quei giorni. Per tre giorni si lanciarono contro le posizioni difese da inglesi e francesi, partendo a volte da soltanto cinquanta metri di distanza e finendo falciati letteralmente a mucchi dal fuoco nemico. L’olio di cui aveva parlato Bethmann-Hollweg si rivelò per più di diecimila soldati-ragazzi quello dell’estrema unzione. L’episodio rimase nella storia tedesca come “Il massacro degli innocenti di Langemark” e sul luogo venne eretta una statua di una madre e di un padre che piangono straziati la morte del loro figlio in battaglia. I tedeschi ebbero un amaro risveglio dai loro sogni di una guerra breve e gloriosa, ma ai francesi era andato ancora peggio. Il loro piano, il Plan XVII, prevedeva un attacco frontale contro le linee tedesche nella foresta delle Ardenne. Guidati all’assalto dagli ufficiali dell’accademia di St Cyr, con una piuma bianca sul cappello per segnalare la loro provenienza dalla prestigiosa scuola militare, i francesi con indosso i loro visibili pantaloni rossi furono massacrati nel corso di una serie di assalti suicidi. Nel più sanguinoso di questi episodi, il 23 agosto, nel giro di sole sei ore 28 mila ragazzi francesi furono uccisi. Prima della fine di agosto l’intero esercito francese aveva rinunciato all’offensiva e si era chiuso in difesa.
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A dicembre un milione di uomini e ragazzi erano morti o erano stati feriti su tutti i fronti. Il sogno di una guerra di movimento napoleonica, con grandi manovre aggiranti e assalti all’arma bianca, si era infranto contro l’acciaio del filo spinato e il piombo dei proiettili di mitragliatrice. Gli eserciti si erano bloccati in uno stallo che andava dalla Svizzera al Mare del Nord, un fronte lungo il quale correva una cicatrice fatta di trincee, bunker e soldati maleodoranti che non si lavavano da giorni. Anche gli eserciti erano cambiati: nelle trincee gelide di dicembre era rimasto poco spazio per l’entusiasmo dell’estate. Quando la temperatura scendeva sotto zero il terreno gelava e diventava impossibile da scavare. Con la pioggia le trincee diventavano un pantano viscido e chi sopravviveva ai proiettili rischiava di morire quando le pareti della sua buca gli crollavano addosso.
I ragazzi entusiasti che si erano arruolati a luglio ora erano diventati uomini e lo erano diventati nel modo peggiore. Nelle fotografie dell’epoca molti di loro hanno lo sguardo vuoto e distante che hanno i soldati che sono stati a lungo in battaglia, quello che in inglese si chiama il thousand-yard stare, lo “sguardo lontano mille metri”. I regolamenti militari dell’epoca semplicemente non contemplavano l’ipotesi che un uomo potesse crollare sotto lo stress da combattimento e nessuna misura venne presa per curare quei ragazzi, tranne, a volte, qualche sommaria corte marziale. Nelle linee immobili di dicembre, spesso i soldati si trovavano a poche decine o centinaia di metri dai loro nemici e a volte presidiavano la stessa linea del fronte per giorni e giorni di seguito. Inevitabilmente, in questa situazione così statica, i soldati finivano per conoscere i loro nemici e questo presto avrebbe portato delle conseguenze impreviste per i comandanti degli eserciti. Già una settimana prima di Natale, in varie parti del fronte, si era instaurato una specie di clima da “vivi e lascia vivere”. Il 19 dicembre, il tenente Geoffrey Heinkey, del 2 Queen’s Westminster Rifles, scrisse a sua madre: «È accaduto un fatto straordinario: alcuni tedeschi sono usciti dalle loro trincee e hanno iniziato a portare via i loro feriti e così noi siamo subito usciti dalle trincee e abbiamo cominciato a portare dentro i nostri morti […] È davvero ironico: la notte scorsa abbiamo avuto uno scontro tremendo e la mattina dopo eccoci qui, con loro che fumano le nostre sigarette e noi che fumiamo le loro». Heinkey era stupito per la piccola tregua a cui aveva assistito, e sarebbe rimasto meravigliato davanti alla scala di quello che sarebbe accaduto meno di una settimana dopo.
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La sera del 24 dicembre i soldati alleati assistettero a un fenomeno strano lungo le linee nemiche. Una serie di luci cominciarono ad accendersi lungo le trincee tedesche. Come ricordò un soldato inglese, era un avvenimento particolarmente inusuale perché «questo è un posto dove di solito è un suicidio accendere anche solo un fiammifero». A La Chapelle-d’Armentières, un villaggio vicino a Ypres, dopo le luci i soldati inglesi cominciarono a sentire un confuso rumore di trombe e corni. Pensarono che i tedeschi stessero preparando uno dei loro massicci attacchi e si affacciarono di corsa ai parapetti, imbracciando le armi. Dalle linee tedesche arrivò una voce: «Inglesi, inglesi!» disse in un inglese stentato attraverso un megafono: «Non sparate! Voi non sparate, noi non spariamo». E poi dopo qualche attimo, come per cercare le parole: «Merry Christmas!». Gli inglesi a quel punto capirono che cos’era la fonte di quelle luci: erano alberi di Natale.
Qualcosa di simile stava succedendo anche a St Yvon, venti chilometri più a nord. Nel pomeriggio del 24 dicembre il tenente Charles Bruce Bairnsfather guardò il tramonto e pensò che «c’era qualcosa di strano nell’aria». Non c’erano stati spari per tutto il giorno e sembrava che fosse appena stata «dichiarata la pace». Bairnsfather uscì dalla sua trincea «trascinando i piedi nell’acqua in cerca di un posto asciutto, mi ci fermai sopra e guardai la scena che mi circondava, la tranquillità le stelle e ora il cielo blu scuro. Da lì potevo vedere la fila delle nostre trincee e quelle dei tedeschi. Lentamente alcune canzoni cominciarono a levarsi da varie parti della nostra linea«. Quando il coro degli inglesi si affievolì e poi si spense, Bairnsfather sentì qualcosa che sembrava un’armonica a bocca suonare in lontananza. Raggiunse le trincee avanzate dove trovò un gruppo di soldati affacciati al parapetto che guardavano verso le linee nemiche. «Che succede?», chiese. «Sono i tedeschi signore», ora Bairnsfather li poteva sentire chiaramente, «Stanno cantando».
Entro sera quasi l’intera linea tedesca era illuminata da migliaia di alberi di Natale. Come ricordò un soldato tedesco: «Ogni trincea aveva un suo albero e da ogni direzione si sentivano le voci roche dei soldati cantare canzoni natalizie». La preferita era Stille Nacht e quando le voci sommesse dei tedeschi arrivavano alle linee inglesi, soltanto un’eco se erano lontane, chiare e forti quando erano vicine, in molti non potevano fare a meno di affacciarsi ai parapetti e unirsi al coro cantando in inglese la stesse canzone. Molti, tra i più giovani che avevano lasciato a casa la famiglia, piangevano cercando di non farsi vedere dai compagni di trincea. A La Chapelle-d’Armentières dopo le canzoni natalizie i tedeschi intonarono “God Save the King”, l’inno dei loro nemici inglesi, e furono accolti da applausi scroscianti. Gli inglesi risposero cantando l’inno austriaco che fu accolto con «straordinari applausi». A St Yves, Kurt Zhemisch scrisse alla famiglia: «Sono stato sveglio tutta la notte ed è stata una notte meravigliosa». Furono quasi sempre i tedeschi a tentare i primi approcci ed era abbastanza normale: si trovavano sul suolo nemico e stavano vincendo la guerra. Avevano rifornimenti in abbondanza, trincee migliori e più asciutte di quelle dei loro nemici. In altre parole erano quelli che avevano meno da perdere in una tregua. Gli inglesi accolsero quasi ovunque di buon grado quelle iniziative. Con i tedeschi c’era poca animosità. Non un soldato tedesco si trovava sul suolo inglese e non un inglese si trovava su quello tedesco. Ma con i francesi era tutta un’altra storia: era il loro paese quello invaso e devastato dall’artiglieria nemica. Ci voleva coraggio per affacciarsi ad una trincea e gridare buon Natale ai francesi.
La sera del 24 dicembre l’erede al trono Wilhelm decise di fare un giro per alzare il morale dei suoi uomini e distribuire un po’ di medaglie. Si fece accompagnare da un tenore dell’opera di Berlino, Walter Kirchoff. Il severo principe della corona, che sarebbe diventato un ardente sostenitore di Hitler, si rifiutò di avvicinarsi troppo alla prima linea e preferì distribuire croci di ferro al sicuro nelle retrovie. Kirchoff, invece, raggiunse le trincee avanzate per portare un po’ di conforto agli uomini in prima linea. La campagna, resa brulla e spoglia dai bombardamenti, era coperta di neve e in lontananza si sentiva il fuoco delle mitragliatrici. I soldati, sporchi ed esausti, si radunarono ad ascoltare in silenzio il tenore, illuminati dalle luci dei loro alberi. Quando Kirchoff terminò la sua esibizione dalle linee francesi si sentì arrivare un grido: «Encore!». Kirchoff li accontentò. Poco lontano da dove due mesi prima era avvenuto il massacro di Langemarck, alle linee tedesche arrivò portato dal vento il suono di una fisarmonica francese che intonava Stille Nacht. Nella stessa zona due soldati belgi raccontarono di Victor Garnier, un tenore dell’Opera di Parigi, che si era spinto fino alle trincee avanzate, dove fischiavano i proiettili, per cantare ai soldati. Quando finì la sua esibizione «lasciò tutti in silenziosa ammirazione». Per tutto il resto della notte non si sentì sparare un solo colpo.
Ancora più dei francesi, i belgi erano quelli che avevano meno motivo di fraternizzare con i loro nemici. Il loro paese era stato aggredito e la sua neutralità violata. L’occupazione tedesca era stata brutale, molti civili erano stati uccisi e la città belga di Lovanio era stata incendiata per rappresaglia. Ma i tedeschi ci provarono comunque. Davanti a una postazione belga i soldati videro sulle linee avversarie comparire un cartellone che recitava: «Joyeux Noël». A Pervyse alcuni soldati belgi si riunirono per una messa di Natale in una chiesa vicina alla prima linea. Nonostante le luci accese per permettere lo svolgimento della funzione, i tedeschi non spararono un solo colpo per tutta la notte. Il giorno dopo, il 25 dicembre, sulle rive del fiume ghiacciato che separava le due linee comparvero una sessantina di tedeschi. I belgi corsero alle armi ma i tedeschi non sembravano avere cattive intenzioni. Non erano armati e portavano con se uno strano oggetto avvolto in un panno. Uno dei tedeschi gridò: «Se c’è un prete tra di voi vorremmo lasciargli un ricordo!». I belgi pensarono che la richiesta avesse qualcosa a che fare con la sepoltura dei loro commilitoni. Invece, quando un cappellano militare arrivò sulla riva belga, i tedeschi cominciarono a cantare, prima con voci incerte e preoccupate e poi sempre più decisi, fino a che i soldati belgi di origini fiamminghe, che conoscevano le stesse canzoni e che parlavano una lingua simile, si unirono al coro. Quando finirono di cantare un ufficiale tedesco prese il grosso involucro e si avvicinò al fiume ghiacciato. «Bonjour, messieurs!», gridò e spiegò che i suoi uomini avevano trovato in una cantina di una casa occupata un reliquiario neo-gotico, fatto di oro e pietre preziose, e che erano venuti a restituirlo ai legittimi proprietari. Una corda venne lanciata attraverso il fiume ghiacciato e il reliquario fu trascinato fino alle linee belghe. Robert de Wilde, un ufficiale belga, fu commosso dal gesto e scrisse alla sua famiglia: «La festa di Natale ha per un momento unito i nemici di oggi e di domani».
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Se la sera della vigilia era stata un’occasione per cantare canzoni a distanza e per qualche piccolo incontro casuale nella terra di nessuno, il giorno di Natale la timidezza fu messa da parte. In moltissimi punti delle linee inglesi e meno di frequente in quelle francesi, i soldati uscirono dalle trincee senza più paura di essere colpiti dal fuoco di un cecchino. Quasi ovunque il giorno di Natale i soldati andarono nella terra di nessuno per seppellire i loro morti abbandonati da giorni e settimane. A volte queste operazioni procedevano a distanza, senza scambi tra i soldati, ma spesso gli uomini non resistevano alla curiosità. Bastava uno scambio di sguardi, un cenno di saluto e i nemici prendevano coraggio, si avvicinavano gli uni agli altri e si stringevano la mano.
Centinaia di regali furono scambiati in questi incontri. Gli inglesi fumavano sigari tedeschi e i tedeschi sigarette inglesi. La cioccolata veniva scambiata con le pipe scolpite con la faccia del principe Wilhelm che i tedeschi avevano ricevuto a decine di migliaia in regalo dal Kaiser. Parecchi soldati tedeschi che avevano lavorato nel Regno Unito come camerieri o operai fungevano da interpreti. Gli ufficiali conversavano in francese oppure in inglese. In un punto della linea francese ci fu un accordo per seppellire i morti di entrambe le parti. I francesi uscirono dalle trincee armati di vanghe e si trovarono davanti i tedeschi che gli porgevano scatole di sigari. Ci fu un momento di imbarazzo e poi i francesi si affrettarono a trovare qualcosa con cui ricambiare i doni. Persino i duri soldati della Legione Straniera cedettero all’invito dei tedeschi di seppellire i loro morti e una volta fuori ricevettero sigari e sigarette in regalo da un ufficiale tedesco e si fecero fare una fotografia tutti insieme.
Le lettere di soldati sono ricche di resoconti di partite di calcio giocate nella terra di nessuno, a volte con veri e propri palloni, altre con palle di stracci. In genere in questi resoconti le partite sono descritte come incontri goliardici, dove nessuno teneva il punteggio e gli uomini giocavano con in testa uno i berretti dell’altro. È probabile che avvennero partite del genere anche se, a differenza di molti altri incontri, mancano le conferme dei soldati di entrambe le parti: il criterio che di solito si usa per stabilire se gli episodi avvenuti nella tregua avvennero realmente o sono il frutto di un resoconto un po’ sentimentale.
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Com’era cominciata, improvvisamente, per iniziativa delle truppe al fronte, la tregua finì. Nelle linee francesi il fuoco ricominciò quasi ovunque il 26 dicembre. Alcuni genieri francesi attesero la mezzanotte del 25 per far brillare una mina sotto le trincee tedesche e segnalare la fine della tregua. Sulle linee inglesi in molti punti la tregua durò più a lungo, in certi settori fino alla fine dell’anno. Ma lentamente, anche grazie alla pressione degli alti comandi, terrorizzati che la tregua potesse trasformarsi in un ammutinamento generale delle truppe, gli scontri ripresero. Ci furono altri tentativi di tregua negli anni successivi, ma nessuno ebbe il successo che aveva avuto la tregua del 1914. I soldati al fronte avevano dato a Falkenheym e al suo desiderio di chiudere almeno uno dei due fronti una possibilità straordinaria, ma l’occasione non venne colta. Nessun tentativo di accordo fu presentato in quei giorni, nemmeno attraverso i canali non ufficiali. La guerra continuò per altri quarantasei mesi fino alla sua amara conclusione. In tutto 10 milioni di soldati morirono e la pace imposta alla Germania nel 1919 mise le fondamenta per un’altra guerra che si sarebbe rivelata ancora più devastante. È impossibile dire se la tregua di Natale avrebbe potuto portare a una conclusione diversa, un finale che avrebbe risparmiato all’Europa le più grandi tragedie che avrebbe visto nella sua storia. Come ha scritto lo storico Stanley Weintraub, la tregua di Natale rimase un episodio isolato, senza conseguenze: «una celebrazione dello spirito umano, una commuovente manifestazione dell’assurdità della guerra».
Breve bibliografia
Diversi libri e articoli sono stati essenziali per scrivere questo articolo. Molte delle citazioni sono prese da “Catastrofe 1914”, di Max Hastings, un libro che racconta il primo anno di guerra attraverso centinaia di lettere e racconti di soldati. “I cannoni d’agosto” di Barbara Tuchman è un altro titolo essenziale, anche se un po’ datato, per conoscere gli eventi salienti di questa storia. Gli episodi della tregua di Natale sono tratti da diversi articoli pubblicati online, ma soprattutto dai due più completi e affascinanti libri su questo episodio: “Silent Night”, di Stanley Wintraub e “Christmas Truce”, di Malcolm Brown e Shirley Seaton. Infine, per alcuni dettagli e interpretazioni generali sono stati molto importanti il volume di storia ufficiale tedesca “Der Herbst-Feldzug 1914” e “The First World War”, di Holger Herwig.