L’anno del governo Renzi
Il 2014 è stato quello della più grossa promessa di cambiamento politico in vent'anni: tutta da mantenere, come si vede, ma qualcosa si è mosso
Ricordiamoci come è nato il governo Renzi, se vogliamo fare un bilancio più completo possibile di questo anno di governo Renzi, col valore di un bilancio di dieci mesi appena: se qualcuno volesse scrivere la voce “manovra di palazzo” su Wikipedia, come immagine sceglierebbe quel passaggio di campanella tra Letta e Renzi, a febbraio. Fu una soluzione pessima nei modi – e quindi nella sostanza – all’ennesima inadeguatezza di un governo italiano rispetto agli straordinari problemi italiani. Scrisse allora il direttore del Post che quei problemi non si sarebbero risolti affrontandoli con una decisione che apparteneva esattamente a ciò che aveva generato quei problemi: l’inclinazione alla ricerca di scorciatoie, a rammendi fragili, a uova oggi invece che galline domani, col frequente risultato di fare frittate; una cultura politica decadente e decaduta.
Partiva già in debito, quindi, il governo Renzi: doveva essere migliore di come era nato e raddoppiare i suoi successi per legittimare con risultati straordinari quella genesi straordinaria. Non ci è riuscito, per ora, e questo è indiscutibile: anche se ha probabilmente scongiurato il peggio di un declinante governo Letta, di una ricostruzione del centrodestra berlusconiano, di un gonfiarsi della sterile sovreccitazione grillina, di una totale crisi di senso del PD. Una pezza, provvidenziale, ma una pezza.
Ma quello di cui può rallegrarsi il governo Renzi è di non avere perso in questi dieci mesi il capitale di fiducia e aspettative con cui era nato – che non è normale, e si deve alle grandi qualità comunicative del PresdelCons – pur avendo fatto ancora poco per soddisfare quelle aspettative o mostrarsi in grado di farlo.
Tutto il giudizio sul governo Renzi discende da un giudizio su Matteo Renzi: il cambiamento di quest’anno non viene da un movimento nuovo, non viene da un gruppo sovversivo, non viene da un’aria cambiata, ma da una persona con caratteristiche eccezionali. Non ci fosse stato Matteo Renzi, niente di simile alla situazione politica attuale sarebbe avvenuto. Questo è senz’altro un merito agli occhi di chi avesse a cuore un cambiamento non distruttivo della pigra stagnazione politica e culturale italiana: ma ha con sé delle implicazioni potenzialmente negative legate alla stessa one-man-natura di questo cambiamento.
Renzi è viziato dal successo, e lo si può capire: ha ottenuto finora per sé risultati politici così grandi e in così poco tempo che non ce ne sono precedenti nella storia italiana. È diventato prestissimo presidente di una grande provincia, è diventato prestissimo sindaco di una delle più importanti città d’Italia, contro il suo partito, è diventato segretario del maggiore partito italiano battendo nel giro di un anno i maggiori leader del partito che lo avevano tenuto di poco a distanza la prima volta, è diventato subito dopo presidente del Consiglio per richiesta della massima carica dello Stato, senza neanche passare dal voto, e con deposizione delle armi ai suoi piedi da parte di molti suoi nemici, interni ed esterni. Ogni volta che qualcuno ride di Renzi, poco dopo Renzi sta ridendo di lui.
Chiunque quindi al posto suo si convincerebbe di poter riuscire a fare di tutto, e facendo di testa propria. Ai tempi degli slogan sulla “rottamazione” in molti che pure sostenevano il suo lavoro trovarono che l’aggressività di quella formula avesse superato i limiti del rispetto e della possibile condivisione: eppure lui insistette, e anche grazie a quella spiccia e ripetuta formula ottenne i consensi che gli servivano e che ha tutt’ora. È quindi difficile rimproverargli ora i toni spesso sgradevoli e privi di misura delle sue anche giuste contrapposizioni col sindacato e con certe pessime gestioni del sistema del lavoro: perché alla fine, finora, ha sempre avuto ragione lui, se giudichiamo dai risultati immediati. E anche questa volta, la legge sul lavoro l’ha cambiata: hai voglia a dire “modera i termini”.
Ma se vogliamo giudicare sui risultati, è dei risultati a lunga scadenza che dobbiamo parlare, benché sia presto: ovvero di quelli intuibili sulla base di ciò che è stato fatto finora, sia in termini di cambiamento in meglio dell’Italia, sia in termini di conservazione del consenso necessario a ottenere questo cambiamento.
Vediamo, cos’ha di nuovo, in dieci mesi, l’Italia? Niente di concreto, si direbbe: il problema è anche molto nelle teste e nel nostro sbriciolato senso di comunità, responsabilità e bene comune, che Renzi annuncia di voler ricostruire ma per ora senza grandi capacità di motivazione. Intanto l’Italia ha però un governo presentabile, che non è poco, anche se non è esattamente un governo eccitante: ci sono alcuni ministri di cui tuttora non ricordiamo l’esistenza o il nome, e nessuno che si sia fatto apprezzare davvero per qualcosa, se escludiamo la proverbiale e riconosciuta perseveranza del ministro Boschi. E ha un PresdelCons che trasmette a molti italiani (molti lo odiano, certo: ma lo odiavano già da prima, e spesso più per ragioni ideologiche o “di pelle” che di sostanza) una sensazione di qualcosa che potrebbe succedere: che è preziosa. E questa sensazione Renzi ha cominciato a diffonderla negli anni passati, ma l’ha anche coltivata in quest’anno di governo: ponendosi nei confronti di alcune nobili ma rigide strutture della conservazione italiana – il parlamento, i sindacati, i media qualche volta ma non abbastanza – in modi promettenti di cambiamento. E dispiegando una “politica degli annunci” che ha presto cominciato a mostrare la corda e insospettire di scarsa affidabilità, ma ha anche dato la sensazione di voler intervenire in molti settori e aprire discussioni su molti temi.
Figlia della one-man-natura di questo governo è anche la ritrosia di Renzi a creare intorno a sé una nuova classe di leader per il cambiamento: e di nuovo, uno abituato a riuscire facendo tutto lui (non che Renzi non sia incline ad ascoltare, ma vuole decidere lui e teme chi decide senza di lui) inevitabilmente si circonda di buoni esecutori, nel migliore dei casi: non di leader delegati e capaci di aggiungere altro. Il risultato positivo – mai citato dai critici – è che nessun governo della storia italiana ha avuto un così basso tasso di litigiosità interna o di dissidenza e personalismi come questo: e sappiamo quanto queste tendenze abbiano complicato la vita dei governi italiani passati.
Il risultato negativo è però che in tutti i ministeri sono mancati finora guizzi creativi o iniziative ardite per cambiare le cose: perché queste iniziative sono tutte concentrate su Renzi, il quale malgrado tutto non è in grado di inventare da solo soluzioni innovative e motivanti per ognuna delle molte questioni italiane. E quindi deve impegnare tantissimo tempo a dare un’impressione di cambiamento, sottraendo quel tempo a pratiche concrete di cambiamento reale e non concedendone la delega a nessuno: o meglio non affidandole a nessuno che possa adottarne in autonomia, per quanto complice.
Per fare un esempio estremo: immaginate che Matteo Renzi sia sottratto al suo ruolo domani – che si innamori di una polinesiana, per non fare ipotesi preoccupanti – ed ecco che di tutto questo non resta niente, né nessuno a prenderselo sulle spalle. È un esempio estremo, ma dà l’idea di quanto poco abbia costruito Renzi all’infuori di Renzi (ha costruito una speranza e una partecipazione estese, dirà qualcuno: ma quelle c’erano da un pezzo e venivano da lontano, aspettavano solo Renzi, e adesso meriterebbero di più).
Alla fine, in questi dieci mesi, la cosa più concreta, memorabile e apprezzata fatta dal governo Renzi sono gli ottanta euro: e gli va riconosciuta – al di là delle sue ricadute o meno, oltre a essere ottanta euro in più per molti italiani – come un aiuto reale e come un’ottima idea per alimentare quel consenso di cui un governo di cambiamento ha bisogno.
Però quell’idea sta esaurendo – se non l’ha già fatto – il suo respiro: e il governo Renzi non manterrà ancora a lungo lo stesso consenso e lo stesso potenziale elettorale se non fa qualcos’altro che mostri dei risultati. L’approvazione del Jobs Act non è ancora questo qualcos’altro: lo saranno le sue palesi conseguenze, se ci saranno, e speriamo siano indiscutibili. La riforma elettorale lo sarà in piccola parte simbolica – non l’ha fatta nessuno e tutti l’avevano promessa – ma poi non è la riforma elettorale il problema dell’Italia (come si vede, il governo che la sta ottenendo non è nemmeno passato dalle elezioni, affascinante paradosso).
Insomma, alla fine dell’anno il governo Renzi mostra i limiti di azione che erano dati dalle circostanze della sua nascita e quelli di progetto dati dalla sua one-man-natura – che probabilmente sono inevitabili: chissà se si cambia a 39 anni, quasi 40. Però ha in mano ancora le stesse carte e le stesse opportunità con cui si trovava quando nacque, a febbraio: che è un capitale prezioso, se ci aggiungi dieci mesi di esperienza e insegnamenti, e una legge sul lavoro che tra poco ogni giorno dovrebbe far percepire risultati, negli annunci.
Comincia insomma il 2015 come rientrando in campo dopo l’intervallo ma senza sentire la fatica del primo tempo e col sole basso in faccia agli avversari: però siamo ancora zero a zero e forse per vincerla bisogna inventarsi qualcosa di diverso.
foto: Claudio Bernardi/LaPresse