Mabrouk, Tunisia!
È il "paese dell'anno" secondo l'Economist: è stato scelto per la sua moderazione e perché "dà speranza a una regione disgraziata e a un mondo inquieto"
Il settimanale britannico Economist ha scelto per il secondo anno consecutivo il “paese dell’anno”, sulla base di criteri legati a una speciale categoria di riforme: quelle che non hanno migliorato solo il paese in cui sono state fatte, ma che, se imitate, potrebbero migliorare il mondo intero. Il paese scelto dall’Economist per il 2014 è la Tunisia. Nel dicembre 2010 in Tunisia un giovane uomo – Mohamed Bouazizi, 26enne venditore di frutta – si diede fuoco dopo avere subito degli abusi da parte delle autorità. Il gesto di Bouazizi segnò l’inizio di una svolta epocale in molti paesi del Nord Africa e Medio Oriente, fece cominciare le cosiddette “primavere arabe” e cambiò la storia successiva della Tunisia. Ha scritto l’Economist:
«L’idealismo generato dalla primavera araba è sprofondato per lo più in massacri e gruppi di estremisti, con una notevole eccezione: la Tunisia, che nel 2014 ha adottato una Costituzione nuova e illuminata e ha tenuto elezioni sia parlamentari che presidenziali (il ballottaggio per le presidenziali è previsto per il 21 dicembre). La sua economia è in difficoltà e la sua politica è fragile; ma il pragmatismo e la moderazione della Tunisia hanno dato speranza a una regione disgraziata e a un mondo inquieto. Mabrouk [esclamazione araba che significa congratulazioni, ndr], Tunisia!»
La Tunisia, scrive l’Economist, è uno di quei paesi a cui è capitato qualcosa di molto buono nel 2014. Non sono stati molti, nel mondo. Il 2014 è stato un anno pieno di guerre, disastri, insurrezioni, ed è sembrato “una sanguinosa staffetta tra i quattro cavalieri dell’Apocalisse”: c’è stata l’ascesa dello Stato Islamico, che tra le altre cose ha cambiato la geografia dell’area compresa tra Siria e Iraq; c’è stata la guerra in Ucraina, o meglio il “nuovo tipo di guerra” fatta dalla Russia prima in Crimea e poi in Ucraina orientale; ci sono stati i gravissimi attentati di Boko Haram in Nigeria e di al Shabaab nel Corno d’Africa; c’è stata la guerra civile in Sud Sudan. E poi c’è stato il definitivo fallimento della primavera araba, con la guerra in Siria, l’autoritarismo militare in Egitto, il disastro della Libia e dello Yemen. In Tunisia le cose sono andate molto diversamente: dopo una grossa crisi nel 2013 – durante la quale furono uccisi anche due importanti politici nazionali – la situazione politica si è stabilizzata e la minaccia della diffusione dell’estremismo islamico sembra essere in parte rientrata.
In lizza per il premio di “paese dell’anno”, scrive l’Economist, c’era anche l’Indonesia, il paese musulmano più grande al mondo che questa estate ha eletto un nuovo presidente: il 53enne Joko Widodo, detto “Jokowi”, ex governatore di Giacarta e senza alcun legame con il lungo passato autoritario del paese (il dittatore Suharto è rimasto al potere per 31 anni dal 1967 al 1998: lo sfidante di Widodo era Prabowo Subianto, ex militare e genero di Suharto). L’Indonesia sarebbe stata premiata per le nuove politiche avviate dal Widodo, anche se tra moltissime difficoltà e con risultati ancora incerti. L’Economist fa una menzione speciale anche per l’Uruguay, il “paese dell’anno” del 2013 premiato per le sue posizioni liberali sulla marijuana e sui matrimoni gay. L’Uruguay, dice l’Economist, ha avuto un altro anno molto positivo: ha tenuto delle elezioni presidenziali corrette, ha avuto una crescita economica notevole e ha accolto sei detenuti di Guantanamo in accordo con l’amministrazione americana di Barack Obama.