Da dove arriva il capo dell’IS
Abu Bakr al-Baghdadi si creò contatti e reputazione in un carcere americano in Iraq: lo ha raccontato un importante miliziano dello Stato Islamico a un giornalista del Guardian
Negli ultimi mesi tutti gli importanti giornali internazionali si sono occupati dello Stato Islamico – che cos’è, come si finanzia, cosa vuole ottenere – basandosi sulle informazioni raccolte dalla propaganda jihadista e dalla storia del gruppo degli ultimi quindici anni. Ancora poco si sa dei suoi leader e di come sia stato possibile che si formasse una cellula qaedista così forte senza che incappasse in qualche maniera nell’intelligence americana. Martin Chulov, giornalista del Guardian, è riuscito ad avere una serie di colloqui con un miliziano che occupa una posizione importante all’interno dell’IS. Il miliziano – che si fa chiamare Abu Ahmed – ha raccontato a Chulov molte cose nuove sulla nascita dell’IS e sull’ascesa del suo capo, Abu Bakr al-Baghdadi. È una storia interessante, perché si lega ai fallimenti della strategia americana in Iraq, alle guerre interne ad al Qaida e anche a dei boxer da uomo. Boxer che, ha raccontato Abu Ahmed, hanno aiutato l’IS “a vincere la guerra”.
La prigione americana di Camp Bucca
Nel 2003, dopo l’invasione americana dell’Iraq che portò alla destituzione di Saddam Hussein, gli Stati Uniti aprirono in territorio iracheno delle prigioni per interrogare, tra gli altri, sospetti terroristi e jihadisti (la più nota era la prigione di Abu Ghraib, le cui foto di torture e sevizie fecero il giro del mondo). Camp Bucca era una di queste carceri: si trovava nel sud dell’Iraq e aveva una pessima reputazione tra gli iracheni. Nell’estate del 2004 Abu Ahmed, che allora era un ragazzino, entrò a Camp Bucca come sospetto jihadista. Era terrorizzato dagli americani e dalle storie che si raccontavano sulla vita del carcere. Una volta dentro, capì che le condizioni della sua prigionia sarebbero state meno dure di quanto si aspettasse. Ma soprattutto capì che trovarsi lì, insieme ad altre decine di jihadisti, era un’opportunità unica: «Non avremmo potuto stare tutti insieme a Baghdad, o in qualsiasi altro posto. Sarebbe stato incredibilmente pericoloso. Lì non solo eravamo al sicuro, ma ci trovavamo anche a poche centinaia di metri dall’intera leadership di al Qaida». E dal futuro capo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi.
Il carisma di Abu Bakr al-Baghdadi
Baghdadi, nato nel 1971 nella città irachena di Samarra, fu catturato nel febbraio 2004 dalle forze americane a Falluja, e poi trasferito a Camp Bucca. A quel tempo Baghdadi era a capo di un piccolo gruppo di insurgency irachena sunnita che combatteva contro le forze occupanti statunitensi. Abu Ahmed lo conobbe nel carcere:
«Ebbi una sensazione particolare su di lui: come se stesse nascondendo qualcosa dentro, qualcosa di oscuro che non voleva mostrare alle altre persone. Era l’opposto degli altri leader con cui era molto più facile avere a che fare. Era lontano, per così dire, lontano da tutti noi. […] Era una persona calma. Aveva carisma. Si percepiva che era uno importante. Ma ce n’erano anche altri importanti. Onestamente non pensavo che potesse arrivare così lontano. […] Lui era molto rispettato dall’esercito americano. Se voleva visitare i detenuti di altri campi poteva farlo, noi no. E per tutto il tempo ebbe in mente quella nuova strategia, che portò avanti sotto gli occhi dei soldati stranieri: la costruzione dello Stato Islamico. Se non ci fossero state le prigioni americane in Iraq ora non ci sarebbe stato l’IS. Bucca fu uno dei centri dove si costruì l’IS. Arrivò da lì la nostra ideologia.»
Gli americani non vedevano Baghdadi come una grossa minaccia – al tempo le attenzioni erano concentrate su Abu Musab al-Zarqawi, il leader nazionale iracheno dell’insurgency contro le forze occupanti – e anzi cominciarono a considerarlo come un “fixer”, uno che era in grado di sistemare i problemi e le divisioni tra detenuti. Nel dicembre 2004 Baghdadi fu liberato e negli anni successivi furono scarcerati anche gli altri detenuti.
I boxer e tutto il resto
Una volta rilasciati, i jihadisti riuscirono a ritrovarsi. Mentre erano a Camp Bucca avevano trovato un modo per scambiarsi i contatti senza farsi vedere dai soldati americani: se li erano scritti nell’elastico dei boxer. La prima cosa che Abu Ahmed fece quando arrivò a Baghdad fu di prendere un paio di forbici e i suoi boxer: «Ho tagliato il tessuto dei miei boxer e tutti i numeri erano lì. Ci rimettemmo in contatto. Avevamo del lavoro da fare. I boxer ci hanno aiutati a vincere la guerra». Baghdadi si riunì rapidamente al jihad, anche se nel frattempo Baghdad era cambiata. I sunniti non combattevano più solo contro gli americani, ma anche contro gli sciiti, che avevano preso il potere dopo la caduta di Saddam Hussein. L’ideatore di questa strategia, molto violenta e settaria anche per i vertici di al Qaida tradizionale, era al-Zarqawi, che Abu Ahmed ha definito “il miglior stratega che lo Stato Islamico abbia mai avuto”. Al-Zarqawi fu ucciso nell’estate del 2006 da un raid aereo americano, con la collaborazione dell’intelligence della Giordania. Dopo, cominciò l’ascesa di Abu Bakr al-Baghdadi.
L’acesa di Abu Bakr al-Baghdadi
«Dopo l’uccisione di Zarqawi, i miliziani a cui piaceva uccidere, anche più di quanto piacesse a Zarqawi, diventarono sempre più importanti nell’organizzazione. La loro interpretazione della sharia e dell’umanità era molto semplicistica». Il nuovo leader dell’organizzazione divenne Abu Omar al-Baghdadi (che non è Abu Bakr): Abu Bakr era il suo vice e uomo più fidato insieme al jihadista egiziano Abu Ayub al-Masri. In questo periodo, ha raccontato Abu Ahmed, crebbero anche i legami tra i jihadisti e il regime siriano sciita di Bashar al Assad: Assad permetteva loro di muoversi liberamente nell’aeroporto di Damasco e di raggiungere il confine con l’Iraq scortati da funzionari siriani (questa è forse la parte più importante delle rivelazioni di Abu Ahmed: per molto tempo si è considerato il regime di Assad generalmente opposto ai jihadisti e un freno contro il terrorismo sunnita).
Nel marzo del 2010 l’esercito iracheno arrestò uno dei capi dello Stato Islamico a Baghdad, Munaf Abdul Rahim al-Rawi. Grazie alla sua collaborazione, le tre agenzie di intelligence irachene riuscirono a individuare il nascondiglio di Abu Omar al-Baghdadi: misero un dispositivo GPS in un mazzo di fiori, da recapitare al capo dell’IS. Una volta confermata la presenza di Abu Omar e del suo vice al-Masri in una casa a pochi chilometri a sud-ovest di Tikrit, gli Stati Uniti attaccarono. I due jihadisti si fecero saltare in aria prima di essere catturati. Gli americani trovarono una casa senza connessione internet o linee telefoniche – come quella di Osama bin Laden in Pakistan. I messaggi venivano recapitati a mano, da tre soli uomini: uno di loro era Abu Bakr al-Baghdadi. La morte di Abu Omar creò un vuoto nell’IS, che fu riempito da molti degli uomini che erano stati prigionieri a Camp Bucca. Abu Ahmed ha raccontato:
«Quando la guerra civile in Siria è diventata seria, non è stato difficile usare tutte le nostre competenze in una zona di guerra diversa. Oggi gli iracheni occupano tutte le posizioni più importanti sia nel Consiglio della Shura sia nella sezione militare dell’IS: e questo è possibile grazie a tutti gli anni durante i quali ci siamo preparati per un evento del genere. Avevo sottostimato Baghdadi. E gli Stati Uniti hanno sottostimato il ruolo che ebbero nel renderlo quello che è oggi.»
Cosa rimane oggi
Nel corso degli anni anche funzionari dell’amministrazione americana hanno riconosciuto il ruolo delle carceri in Iraq nella formazione dei gruppi qaedisti. Secondo il governo iracheno, 17 dei 25 più importanti leader dello Stato Islamico furono detenuti per un periodo tra il 2004 e il 2011 in un carcere gestito dagli americani. In particolare la rivelazione degli abusi e delle torture che venivano compiuti ad Abu Ghraib, scrive Chulov sul Guardian, contribuirono parecchio a radicalizzare le posizioni di molti iracheni. Ancora oggi, a cinque anni dalla chiusura di Camp Bucca, il dipartimento della Difesa statunitense difende le politiche di detenzione attuate nel carcere.
Abu Ahmed è ancora un membro dell’IS e compie operazioni sia in Siria che in Iraq. Ha detto a Chulov di volersene andare ma di non avere intenzione per ora di subire le conseguenze di una decisione di questo tipo (l’IS ucciderebbe sia lui che la famiglia). «Unirmi all’IS è stato l’errore più grande che ho fatto nella mia vita. Non è che non creda nel jihad. Ci credo. Ma che opzioni ho ora? Se me ne vado, mi uccideranno».