Il carcere secondo Salvatore Buzzi
Una vecchia e interessante intervista di una delle persone al centro dell'inchiesta di Roma, sulla vita in carcere negli anni Ottanta e la nascita della discussa cooperativa "29 Giugno"
Nel dicembre del 1994 Salvatore Buzzi – 59enne oggi al centro dell’inchiesta su una presunta associazione a delinquere romana che controllava appalti e finanziamenti pubblici con metodi mafiosi – diede una lunga intervista alla rivista Una città, che era nata tre anni prima a Forlì. L’intervista è totalmente slegata dall’inchiesta “Mondo di mezzo” di cui si sta parlando da giorni su tutti i quotidiani nazionali, ma è interessante perché rivela diverse cose sulla vita carceraria a Roma negli anni Ottanta e inizio anni Novanta, e perché racconta come è nata la cooperativa sociale “29 Giugno” di Buzzi che oggi è coinvolta nell’indagine.
Nell’intervista Buzzi parlava dei diversi aspetti della vita di un detenuto in carcere: tra gli altri, i tempi in una giornata in cella, i rapporti coi reparti femminili, le difficoltà con le guardie carcerarie e il ruolo nelle carceri dei cosiddetti “pentiti” o “delatori”. Parlava anche delle differenze tra carcere penale (per le persone già condannate) e carcere giudiziario (per coloro che sono in attesa di giudizio). Nel carcere penale, spiegava Buzzi, c’era più libertà – le ore d’aria da quattro diventavano sei – e le celle erano aperte tutto il tempo, almeno quelle della stessa sezione. Il carcere più all’avanguardia a Roma negli anni Ottanta era Rebibbia, dove un detenuto poteva girare liberamente anche tra le diverse sezioni. Fu grazie a queste condizioni che Buzzi riuscì a realizzare la sua cooperativa sociale. Buzzi, insieme ad altri detenuti, riuscì a ottenere il permesso per organizzare un convegno: per quell’epoca, raccontava Buzzi, si trattava di un’idea rivoluzionaria, perché le associazioni di detenuti erano considerate associazioni a delinquere, mentre Buzzi progettava un’associazione lavorativa. Riuscì a realizzarla nel 1985 e a ottenere le prime commesse di lavoro dalla Provincia di Roma.
Salvatore Buzzi è direttore della cooperativa sociale 29 giugno, composta da detenuti e ex-detenuti di Rebibbia.
Com’è la giornata dentro?
Di solito si ozia, nel senso che non fai niente. L’ora d’aria, per la verità, sono quattro ore, non una: due alla mattina e due al pomeriggio. In mezzo a questi orari c’è la cosiddetta socialità, puoi andare nella cella di altre persone, negli stanzoni che sarebbero le sale comuni dove ci sta un biliardino. O se no potresti andare in biblioteca, se c’è, a prendere dei libri, a fare due chiacchiere, però ci si può andare uno alla volta, quindi fai due chiacchiere col bibliotecario. La mattina aspetti che ti aprano la cella alle 8.30 per l’ora d’aria, che la passi a passeggiare su spiazzi di cemento col muro di cinta intorno. Un percorso di 50 metri, 100 al massimo, avanti e indietro, avanti e indietro. In carcere si chiamano le vasche. “Quante vasche fai oggi?”. Questa è la passeggiata. La velocità in carcere è il passo d’uomo, e te ne accorgi quando esci dopo tanti anni, a me andare ai 40 mi fece una grande impressione, mi faceva paura.Poi rientri alle 10.30, stai in cella e dopo un’ora c’è la socialità e puoi andare nelle altre celle, passa il carrello con il vitto e puoi pranzare insieme agli altri, in cella però, perché in Italia non c’è il refettorio come nelle carceri americane. Poi non vedi l’ora che arrivi l’una per tornare un’altra volta all’aria, dopodiché arrivano le tre e sono finiti i giochi, dopo non si può fare più niente. Guardi la televisione. E aspetti le 8.30 del giorno dopo.
Non si parla altro che di donne, di pallone e dei reati che hai fatto: questi sono i tre discorsi chiave, non ce ne sono altri. Allora uno ingrandisce sempre, racconti di 500 donne e alla fine ci credi anche tu, alle stupidaggini che dici. C’è gente che dice di essere innocente e magari è colpevolissima, ma continua a dirsi innocente al 1°, al 2°, al 3° grado e dopo 10 anni ci crede pure, alla fine interiorizza che è innocente. I discorsi sono sempre quelli: sulle cose che ti mancano, donne, macchine, vacanze, o sui reati che hai fatto. E poi, certo, il calcio.
Il livello culturale è molto basso in carcere. C’è analfabetismo di ritorno, uno ha la quinta elementare e ormai non sa più né leggere né scrivere. Dentro ci stanno corsi di formazione professionale, sono avviate anche scuole secondarie sia inferiori che superiori, ma il panorama resta desolante. E la sottocultura carceraria è propria anche delle guardie, il carcere è un universo.(Continua a leggere sul sito di Una Città)
Nella foto: il carcere di Rebibbia, a Roma, il 27 ottobre 1984. (Ap Photo/Massimo Sambucetti)