Chi era Michele Sindona
La storia dell'avvocato siciliano legato alla mafia italiana che fu il mandante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli e che morì in carcere due giorni dopo la condanna
Michele Sindona era un banchiere e criminale siciliano processato e condannato nel 1979 per essere stato, tra le altre cose, il mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli, un avvocato milanese che aveva indagato sulla Banca Privata Italiana scoprendo che Sindona aveva commesso irregolarità e falsi in bilancio. Michele Sindona aveva legami con la mafia siciliana e americana.
Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo scrisse sul Corriere della Sera un ritratto di Michele Sindona che lo presentava così:
«Era un ragazzo appartato e taciturno; non timido, presumibilmente, ma di quelli che in Sicilia, si chiamano mastica ferro, che disdegnano cioè, amicizie e compagnonerie, che denunciano, nel pallore del volto, ambizione e determinazione».
Dopo aver cominciato a lavorare come aiuto contabile, Sindona si laureò in Giurisprudenza e aprì a Milano uno studio di consulenza legale e fiscale, ottenendo in breve tempo un gran numero di clienti importanti e influenti. Si specializzò poi in pianificazione fiscale e divenne esperto del funzionamento dei cosiddetti “paradisi fiscali” e dell’esportazione di capitali, e riuscì con delle operazioni bancarie azzardate a raccogliere molti soldi, in Italia e negli Stati Uniti. Nel 1961 Sindona comprò la sua prima banca, la Banca Privata Finanziaria. Nel 1967 cominciarono i problemi: l’Interpol statunitense cominciò a indagare su di lui a causa dei suoi legami con la mafia americana, segnalandolo al governo italiano che però non trovò alcuna irregolarità nelle sue attività.
Nel 1971 Sindona fece delle operazioni finanziarie andate male e subì il fallimento dell’OPA – Offerta Pubblica di Acquisto, è un’offerta finalizzata all’acquisto in denaro di prodotti finanziari – sulla finanziaria Bastogi, promossa dal suo gruppo. L’anno dopo riuscì a prendere il controllo di una delle maggiori 20 banche americane dell’epoca, la Franklin National Bank di Long Island, e fu definito da Giulio Andreotti – accostato spesso nel corso della sua carriera politica a Sindona – “il salvatore della lira”. Pochi mesi dopo però, nell’aprile 1974, portò la Franklin al fallimento con una perdita del 98% dei profitti della banca: fu chiamato il “crack Sindona” poiché il banchiere perse molti dei suoi investimenti e fu dichiarato insolvente.
Nel 1974 Guido Carli, l’allora governatore della Banca d’Italia, scelse l’avvocato milanese Giorgio Ambrosoli come commissario liquidatore della Banca Privata Italiana – un’altra banca che era stata portata quasi al fallimento da Michele Sindona – per cercare di non provocare il panico nei correntisti. Ambrosoli aveva il compito di esaminare la malmessa situazione economica della banca: durante le sue indagini si rese conto che c’erano gravi irregolarità nei conti e che i libri contabili erano stati falsati. In quegli anni Sindona aveva infatti inserito nelle sue società finanziarie gli investimenti del mafioso americano John Gambino: attraverso Sindona e Gambino, i boss Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e Rosario Spatola investivano il loro denaro illecito in società finanziarie, per ripulirlo.
Durante le sue indagini inoltre Ambrosoli cominciò a ricevere pressioni e tentativi di corruzione perché impostasse il suo rapporto in modo da evitare l’arresto e l’incriminazione di Sindona. Ambrosoli non cedette alle pressioni, che diventarono in fretta minacce di morte. Alla fine delle sue ricerche Ambrosoli confermò la necessità di liquidare la banca e l’attribuzione delle responsabilità a Michele Sindona (se invece Sindona fosse stato considerato in buona fede, le perdite dei correntisti sarebbero state coperte dallo Stato). Il 12 luglio del 1979 Ambrosoli avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale per confermare la sua analisi sulla situazione della banca. Fu ucciso la sera prima dal mafioso italoamericano William Aricò con quattro colpi di pistola sotto casa sua. Si scoprì poi che il mandante era proprio Michele Sindona, anche se il banchiere siciliano negò sempre la sua responsabilità.
Indagato anche dalle autorità statunitensi, Sindona inscenò un sequestro arrivando a farsi sparare a una gamba per rendere la storia più veritiera. Nel 1980 però venne arrestato e condannato negli Stati Uniti per frode, spergiuro e appropriazione indebita. Il governo italiano chiese di estradare Sindona per poterlo processare per l’omicidio Ambrosoli: il 18 marzo 1986 venne condannato all’ergastolo. Morì due giorni dopo, nel carcere di Voghera, per avvelenamento da cianuro di potassio: la sua morte viene considerata un suicidio perché il cianuro di potassio ha un odore particolarmente forte, e per questo si pensò che difficilmente avrebbe potuto ingerirlo senza saperlo. Si pensò che Sindona avesse tentato di auto-avvelenarsi per essere nuovamente estradato negli Stati Uniti (con cui l’Italia aveva un accordo di custodia legato alla sua incolumità) ma avesse sbagliato le dosi.
Sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli e sul ruolo che Michele Sindona ha avuto nella vicenda, Corrado Stajano, giornalista e scrittore italiano, ha scritto un bel libro intitolato “Un eroe borghese”. Dal libro è poi stato tratto nel 1995 un film omonimo diretto da Michele Placido. L’1 e il 2 dicembre del 2014 va in onda su Rai 1 una miniserie in due puntate sulla storia di Giorgio Ambrosoli: è intitolata “Qualunque cosa succeda”, il regista è Alberto Negrin, Ambrosoli è interpretato da Pierfrancesco Favino.