6 risposte sullo Stato Islamico
Sta avanzando ancora o no? Cosa sta facendo il governo italiano per combatterlo? E chi diavolo compra il suo petrolio? Un po' di cose per capirci qualcosa di più
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
Da diversi mesi lo Stato Islamico (IS), il gruppo estremista sunnita che occupa ampie parti dell’Iraq nord-occidentale e della Siria orientale, sta facendo parlare di sé su tutti i più grandi giornali del mondo, per diverse ragioni: tra le altre, aver costretto gli Stati Uniti ad attaccare di nuovo l’Iraq e per la prima volta la Siria, le decapitazioni degli ostaggi occidentali, l’efficacia della sua propaganda e una serie di annunci parecchio bizzarri (come l’introduzione della nuova moneta, adottata in tutto il territorio del Califfato Islamico). L’insieme di annunci verosimili ma di incerta autenticità e le poche testimonianze dirette sul funzionamento dell’IS in quanto organizzazione hanno provocato molta confusione su quale sia la situazione attuale in Siria e Iraq: per esempio, l’IS sta vincendo o sta perdendo? Chi c’è ai vertici dei gruppo? Come sta contribuendo il governo italiano nella coalizione guidata dagli Stati Uniti? Abbiamo messo insieme in tutto sei domande – a altrettante risposte – per chiarire alcuni punti fondamentali: in modo da sapere cosa dare per certo e cosa no quando si parla di Stato Islamico.
1. Dove eravamo rimasti?
Da giorni lo Stato Islamico sta combattendo una grande battaglia per il controllo di Ramadi, il capoluogo del governatorato di Anbar, nell’Iraq occidentale. Il giornalista Caleb Weiss, del sito specializzato Long War Journal, ha scritto che l’IS controlla già il 60 per cento della città (Ramadi era stata una delle prime città irachene a essere attaccate dall’IS, lo scorso dicembre). L’IS sta combattendo sia contro l’esercito iracheno sia contro alcuni gruppi sunniti di Ramadi: si tratta di una battaglia strategicamente molto più importante rispetto all’assalto della città curda siriana di Kobane, di cui però la stampa internazionale parla molto di più. Se l’IS dovesse riuscire a conquistare Ramadi, controllerebbe le principali linee di rifornimento che da lì arrivano fino al confine siriano e che da lì si estendono fino alle porte di Baghdad, la capitale irachena. Domenica 23 novembre alcune agenzie internazionali hanno scritto che l’esercito iracheno ha riconquistato due città a nord di Baghdad, prima sotto il controllo dell’IS.
L’altra grossa battaglia è quella di Kobane: secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani – organizzazione pro-ribelli con sede a Londra – negli ultimi due mesi sono state uccise a Kobane 1.150 persone, di cui 712 miliziani dell’IS. Da qualche settimana le sorti di questa battaglia sono cambiate: l’arrivo dei combattenti curdi dall’Iraq – i “peshmerga”, ovvero le milizie del Kurdistan iracheno – assieme agli attacchi aerei americani hanno contribuito a respingere indietro l’IS. In generale è difficile dire oggi chi stia vincendo la guerra, soprattutto per una ragione: la situazione in Siria è molto diversa da quella in Iraq. Questa è la versione breve. Quella lunga è qui.
Mappa di BBC che mostra il numero e la localizzazione degli attacchi aerei americani contro le postazioni dello Stato Islamico in Iraq e Siria
2. Chi comanda nello Stato Islamico?
Lo Stato Islamico non è un gruppo disorganizzato, ha spiegato un recente rapporto del Soufan Group, una società che fornisce servizi di intelligence a governi e organizzazioni multinazionali. In cima a tutti c’è il Califfo, Abu Bakr al Baghdadi, e appena sotto ci sono altri due uomini: il capo dell’IS in Iraq, Abu Muslim al Turkmani, e il capo dell’IS in Siria, Abu Ali al Anbari (sembra che entrambi siano stati membri del partito Baath, un partito politico di orientamento socialista nato in Siria nel 1947 e poi diviso in due fazioni: una siriana e una irachena). Si crede che al Turkmani e al Anbari facciano anche parte del Consiglio della Shura, il più alto organo consultivo dello Stato Islamico, che in teoria potrebbe anche “togliere l’incarico” al Califfo. Il Consiglio della Shura è guidato da Abu Arkan al Ameri ed è formato da un numero di membri che può variare da nove a undici: si crede che faccia parte dell’organo anche Omar al Shishani, il noto comandante militare ceceno dell’IS (ci arriviamo).
L’immagine, realizzata da Frontline e dal Soufan Group, si ingrandisce con un clic
Il più potente organo dello Stato Islamico, comunque, sembra sia il Consiglio della Sharia, formato da sei uomini. Il Consiglio della Sharia, di cui non si conoscono i membri, ha la funzione di nominare il Califfo e di controllare che venga applicata la legge islamica. A un livello inferiore ci sono altri Consigli che si occupano di questioni particolari: per esempio il Consiglio che si occupa dei media e della comunicazione dell’IS – guidato da Abu al Athir Amr al Absi, un personaggio di cui non si sa molto: ne ha scritto il giornalista del Foglio Daniele Raineri – e il Consiglio Provinciale, che coordina le amministrazioni civili delle 18 province in cui è diviso il territorio dell’IS (il governatore di ogni provincia è conosciuto come Wali). La struttura interna delle province replica quella a livello centrale (quindi il governatore ha sotto di sé il Consiglio della Shura e il Consiglio della Sharia). Le informazioni sull’organizzazione del potere all’interno dell’IS non sono ancora del tutto conosciute, specifica comunque il Soufan Group.
3. A chi diavolo vende il petrolio l’IS?
All’inizio di novembre il giornalista Mike Giglio ha raccontato su Buzzfeed una delle attività svolte dall’IS su cui si sa meno in assoluto: la vendita di petrolio (qualcosa era già stato raccontato da CNN a inizio ottobre). Come è noto da tempo, lo sfruttamento di pozzi petroliferi e raffinerie concentrati soprattutto nell’est della Siria è una delle attività più redditizie dell’IS (si parla di profitti compresi tra 1 e 2 milioni di dollari al giorno). Racconta Giglio:
«Dopo che l’ISIS ha estratto il greggio dalla Siria, un intermediario lo trasporta fino al confine siriano, in corrispondenza della città turca di Besaslan. Poi il greggio viene pompato all’interno di tubi fatti passare sotto terra che raggiungono Besaslan: qui alcuni commercianti locali riempiono dei fusti di greggio e li consegnano a uomini d’affari locali che li vendono segretamente ai distributori di benzina o ad altre stazioni di rifornimento illegali»
Una volta in Turchia, il petrolio viene spostato in diversi modi: per esempio vengono riempiti dei serbatoio nascosti sotto dei minibus o delle taniche caricate direttamente su autobus e automobili. Negli ultimi mesi la polizia turca è intervenuta per fermare il traffico di petrolio, sequestrando taniche e oleodotti artigianali: non ha però raggiunto risultati significativi, anche per l’atteggiamento conciliante delle guardie di frontiera che spesso chiudono un occhio. Il punto è che il traffico illegale di greggio attraverso il confine tra Siria e Turchia risale a molto prima dell’inizio della guerra in Siria nel marzo del 2011. Secondo Luay al-Khatteeb, esperto del Brookings Doha Center e direttore dell’Iraq Energy Institute, gli attacchi aerei americani sulle infrastrutture petrolifere dell’IS non hanno azzerato la capacità del gruppo di fare soldi: ancora oggi i profitti dell’IS, stima al-Khatteeb, ammontano a circa 1 milione di dollari al giorno.
4. Chi è il comandante militare dell’IS con i capelli rossi?
Omar al-Shishani è il capo militare dello Stato Islamico e da diversi mesi uno dei jihadisti più temuti del Medio Oriente. È un ceceno, cresciuto nella valle di Pankisi, una regione della Georgia conosciuta per essere zona di traffico di armi, di commercio di droga e movimento di jihadisti verso la vicina Cecenia. Al-Shishani – che a Pankisi è conosciuto con il suo nome georgiano, Tarkhan Batirashvili – viene da una famiglia povera, la madre musulmana e il padre cattolico praticante. La sua esperienza nell’IS non è la prima in una zona di guerra: nel 2008 Tarkhan combatté con l’esercito della Georgia nella guerra contro la Russia (secondo alcune fonti sentite dal Daily Beast, tra cui il padre, Tarkhan fece parte dell’unità delle forze speciali georgiane addestrate dagli americani).
Nella foto: Omar al Shishani in mezzo a un gruppo di combattenti dell’IS mentre viene annunciata l’eliminazione del confine tra Siria e Iraq
Le prime notizie che si hanno di al-Shishani in Siria risalgono all’inizio del 2013, quando la guerra siriana era già in corso da circa due anni. Dopo essersi unito allo Stato Islamico, al-Shishani ha rapidamente scalato le gerarchie. Nel novembre 2013 il Wall Street Journal dedicò ad al-Shishani un articolo dal titolo: «Ecco il comandante ribelle in Siria che fa paura ad Assad, alla Russia e agli Stati Uniti». Dei suoi spostamenti non si sa molto, ma diversi analisti hanno scritto nel corso degli ultimi mesi delle sue “brillanti tattiche militari” nella provincia irachena occidentale di Anbar, dove in questi giorni i miliziani dell’IS hanno lanciato un attacco massiccio per prendere il controllo di Ramadi. Oggi al-Shishani è considerato uno dei leader più importanti dell’IS.
5. È vero che l’IS sta mettendo in piedi una specie di “impero”?
In un messaggio diffuso online giovedì 13 novembre, al Baghdadi ha parlato della nascita di nuove “province” del Califfato in diversi paesi arabi: «Oh musulmani, vi diamo una buona notizia annunciando l’espansione dello Stato Islamico verso nuove terre… le terre di Al Haramayn [Arabia Saudita], Yemen, Egitto, Libia e Algeria». Quattro giorni prima il gruppo jihadista Ansar Beit al-Maqdis, che opera nella Penisola del Sinai (Egitto nord-orientale, confina con Israele), aveva diffuso un video in cui annunciava la sua alleanza con l’IS. Il video invitava anche gli egiziani a ribellarsi alla “tirannia” (forse era un riferimento al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi) e annunciava la nascita della Provincia del Sinai dello Stato Islamico. Circa un mese prima era successa una cosa simile a Derna, una città della Cirenaica, in Libia: alcuni gruppi islamisti locali si erano uniti sotto un’unica leadership e avevano dichiarato la loro alleanza con l’IS.
Ci sono almeno due cose da considerare per capire meglio la dimensione di queste “province”. Primo: i piccoli gruppi che hanno annunciato l’alleanza con l’IS non hanno gli stessi obiettivi dello Stato Islamico e sono concentrati sulle lotte locali contro i regimi che ritengono troppo laici o anti-islamici. Si tratta di uno scambio: i gruppi ci guadagnano in visibilità e risorse, l’IS ci guadagna in reputazione e in reclutamento. Ma l’alleanza in futuro potrebbe rompersi. Secondo: alcuni importanti gruppi jihadisti hanno criticato apertamente l’IS e hanno ribadito la loro fedeltà al capo di al Qaida, Ayman al-Zawahiri (fino al febbraio 2014 anche l’IS faceva parte di al Qaida: poi fu espulso). È il caso di Al Qaida nella Penisola Arabica (AQAP, al Qaida in Yemen) e Ansar al Sharia in Libia, il gruppo responsabile dell’attentato terroristico contro il consolato statunitense di Bengasi l’11 settembre 2012.
6. Cosa sta facendo l’Italia?
Il primo impegno concreto dell’Italia nella guerra contro lo Stato Islamico risale al 20 agosto scorso, quando la commissione Esteri del Senato approvò una risoluzione di maggioranza che autorizzava il governo a trasferire armi e munizioni agli iracheni (la risoluzione era già stata approvata dalla commissione Esteri del Senato). Quel giorno il presidente del Consiglio Matteo Renzi era in visita ufficiale in Iraq e nel Kurdistan iracheno. Da diverse settimane la stampa internazionale stava parlando dell’assedio degli yazidi sul monte Sinjar (gli yazidi erano fuggiti dai loro villaggi dopo l’arrivo dei miliziani dell’IS) e pochi giorni prima erano cominciate a circolare notizie di grossi massacri compiuti dallo Stato Islamico contro i non musulmani e i musulmani che rifiutavano di sottostare al suo potere. Ma soprattutto il 19 agosto era stato decapitato il primo ostaggio occidentale in mano all’IS: James Foley.
Il 5 settembre l’Italia entrò a far parte della coalizione annunciata dal presidente americano Barack Obama per combattere l’IS. Alla fine di settembre l’Italia aveva mandato all’Iraq 2,5 milioni di dollari in armi, tra cui mitragliatrici, granate e un milione di munizioni, oltre che aiuti umanitari. Il 16 ottobre il ministro Pinotti riferì di nuovo alle commissioni Esteri di Camera e Senato annunciando un nuovo impegno: all’invio di armi approvato in agosto, disse Pinotti, l’Italia avrebbe aggiunto un velivolo per il rifornimento in volo dei cacciabombardieri della coalizione internazionale – che oggi si trova in Kuwait – e due droni Predator, velivoli a pilotaggio remoto in questo caso utilizzati per la ricognizione. Inoltre, aggiunse Pinotti, l’Italia avrebbe mandato nel Kurdistan iracheno circa 200 militari tra istruttori, componente logistica e di sicurezza (Pinotti annunciò un’altra serie di provvedimenti minori, che si possono leggere qui).
Il 19 novembre, alla trasmissione Otto e Mezzo di La7, il ministro degli Interni Angelino Alfano ha detto che dall’Italia sono partite una cinquantina di persone verso l’Iraq e la Siria per combattere tra le file dello Stato Islamico. Il 20 novembre il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha confermato alle commissioni Esteri di Camera e Senato la decisione del governo di aumentare l’impegno contro l’IS. Pinotti ha riferito dell’uso di “quattro velivoli Tornado, con la connessa cellula di supporto a terra, per complessivi 135 militari”. I Tornado svolgeranno un’attività di ricognizione aerea, senza partecipare agli attacchi compiuti dagli altri velivoli della coalizione (Pinotti ha parlato di “sorvegliare il territorio, scoprire formazioni armate e identificarle correttamente come ostili”). In generale il contributo dell’Italia finora è minore rispetto a quello di molti altri paesi europei.