Le tre scene più belle di Mike Nichols
Dana Stevens racconta su Slate il conflitto, la seduzione e la negoziazione nei film del grande regista statunitense morto giovedì
di Dana Stevens – Slate
Dana Stevens, che si occupa di cinema per Slate, ha scritto un articolo su tre delle più famose scene girate dal regista Mike Nichols.
«Ci sono solo tre tipi di scene: il conflitto, la seduzione o la negoziazione», amava dire il poliedrico regista statunitense Mike Nichols, morto il 20 novembre all’età di 83 anni. Era un concetto che ripeteva di frequente nelle interviste, spesso aggiungendo il consiglio della sua ex socia di commedie Elaine May: «Nel dubbio, vai con la seduzione».
Sembra una formula sorprendentemente semplice su cui basare una carriera durata sessant’anni: Nichols passava senza alcun sforzo dagli spettacoli comici in teatro al cinema, e poi di nuovo al teatro. Raccoglieva successi. Nel tempo è diventato un punto di riferimento in tutti i campi, adattando i propri lavori a quello che l’America era pronta a vedere, che aveva bisogno di vedere, in quel particolare momento culturale: l’apertura su temi riguardanti il sesso e la fresca satira della borghesia del Laureato, l’appassionato attivismo sindacale di Silkwood e l’angosciante descrizione della comunità gay distrutta dall’HIV e dall’indifferenza dell’era di Ronald Reagan in Angels.
Le migliori scene dei film di Mike Nichols sono – insieme – seduzione, negoziazione e conflitto. Nichols amava mettere in scena momenti di grande teatralità, legati a battibecchi molto serrati tra personaggi che erano ignari degli obiettivi dei loro interlocutori (e a volte anche dei loro). Nichols era anche il migliore a rappresentare questi momenti da un punto di vista cinematografico, usando il movimento della videocamera e la musica, che contavano tanto quanto la recitazione (sempre eccellente, tra l’altro).
La capacità di andare oltre l’artificiosità dell’opera teatrale mantenendo la forza e l’intensità del teatro (il drama, si direbbe in inglese) è evidente fin dal primo film di Nichols, che la Warner Bros gli affidò dopo una serie impressionante di successi. Chi ha paura di Virginia Woolf (1996) è un esempio perfetto di film statico, adattato da un’opera teatrale di Edward Albee e ambientato in un’unica scena girata principalmente in una piccola stanza con due grandissimi attori, Elizabeth Taylor e Richard Burton. Guardate come si muove la videocamera nella scena qui sotto: la scena inizia con Martha, il personaggio interpretato da Taylor, che è già ubriaca e che cerca di presentare il suo marito-quasi-ubriaco agli ospiti appena arrivati. La scena è stata diretta dall’allora emergente DP Haskell Wexler, che poi diventerà un famoso direttore della fotografia americano: l’inquadratura – all’inizio molto statica e fissa sul viso di Martha – si sposta molto delicatamente sulle facce degli altri personaggi, mentre Martha comincia a muoversi nella stanza. È una scena in cui la libertà con cui si muove l’inquadratura è in grado di creare un’intimità vera. C’è poi la precisione con cui Nichols riprende ogni momento, inclusi due primi piani sulle espressioni degli ospiti mortificati (George Segal e Sandy Dennis) che sembrano fatte apposta per sottolineare il disorientamento di Martha.
Se questa può essere considerata una scena di “conflitto” tipica di Mike Nichols, qui sotto ce n’è una di “seduzione” ormai entrata nella cultura di generazioni di amanti di film: il momento della perdita della verginità di Benjamin Braddock (Dustin Hoffman) con Mrs. Robinson (Anne Bancroft), nel secondo film di Nichols, Il Laureato (1967). Passano nove minuti da quando lei entra “accidentalmente” nella camera di Benjamin (dove viene ripresa attraverso l’acqua della vasca dei pesci, come uno squalo che è appena entrato nell’inquadratura) a quando lo intrappola nella camera della figlia, dall’altra parte della città.
In quei nove minuti, la deliziosa scena tra i due – che si basa sul mascheramento delle intenzioni reciproche – si sviluppa in una tensione tra l’effetto comico e il senso di disagio ed è girata all’inizio con riprese lunghe e fisse, e verso la fine con una rapida sequenza di primi piani. Quando Benjamin gira la testa e si trova di fronte l’amica dei genitori completamente nuda, davanti alla porta della camera, Nichols ci mostra tre volte in rapida successione lo stesso identico fotogramma: qui Nichols abbandona la narrazione realistica della precedente scena, e trova un modo per spingerci a capire meglio quello che passa per la testa di Benjamin.
E per finire c’è un meraviglioso esempio di una scena di “negoziazione” dall’ultimo film di Nichols, La guerra di Charlie Wilson (2007). La scena è ambientata nell’ufficio di Charlie Wilson (Tom Hanks), un faccendiere e membro del Congresso del Texas: Wilson è indagato per il finanziamento (segreto) dei ribelli mujaheddin in Afghanistan. Nichols fa diventare l’ufficio di Wilson – che ha due ingressi separati – un set di una farsa delirante, grazie a una serie di entrate-e-uscite perfettamente studiate, che vedono protagoniste alcune assistenti prendi-appunti particolarmente nervose (guidate da Amy Adams) e un impassibile agente della CIA (Philip Seymour Hoffman). L’intera scena è costruita sull’alternanza visiva e si conclude con una battuta riguardante un oggetto sulla scrivania di Wilson: finisce così una scena molto teatrale, che si trasforma in momento improvvisamente cinematografico. Questo era il modo in cui Mike Nichols usava le videocamere – videocamere che in qualche modo erano, come lo stesso Nichols, esattamente dove dovevano essere.
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