Fine di una rivoluzione
Un siriano cattolico che ha fatto la rivoluzione contro Assad racconta come una ribellione pacifica è diventata violenta e poi è stata schiacciata tra l'ISIS e il regime
di Chiara Pavan – Filippomaria Pontani
Chiunque sia stato ad Aleppo prima che il cielo cadesse, ricorderà che sotto il minareto oggi abolito stazionava un venditore di succo di more. A molte miglia di distanza, tra le nubi delle nuove architetture americane, ci troviamo attorno a un bicchiere di Starbucks con un trentenne siriano che chiameremo Nizar (“è meglio uno pseudonimo, in patria io e la mia famiglia siamo ricercati”). Cristiano, filosofo, poeta, Nizar era a Damasco quando tutto cominciò, nel marzo del 2011.
Nizar, il più grande poeta palestinese diceva “Che meraviglia è Damasco, se non fosse per le mie ferite” (M. Darwish, Un’altra Damasco a Damasco, 1986). Com’è cominciato, tutto quanto?
«Eravamo a Damasco, quel giorno di marzo del 2011. Arrivarono da Daraa le notizie dei ragazzi che avevano vergato graffiti contro il regime sui muri di una scuola, e poi erano spariti dopo il loro arresto. La nostra manifestazione di protesta, il 15 marzo, durò pochi minuti e venne immediatamente dispersa dalla polizia; poi l’indomani iniziarono gli arresti, lo sciopero della fame di alcuni prigionieri politici, e il 18, a Daraa, si contarono i primi quattro morti negli scontri di piazza. Era un movimento, pacifico, pieno di ideali e di gioventù. Vi garantisco, non c’erano infiltrazioni di altri Paesi, solo l’ispirazione di ciò che era capitato in Tunisia, in Egitto. E tanta gente esasperata dal regime più repressivo di tutto il Medio Oriente».
Ma poi le cose sono cambiate.
«Sono arrivate le armi. Dinanzi alla violenza della repressione era inevitabile che questo avvenisse: ma da allora tutto ha cambiato segno. Le armi iniziarono ad affluire da tanti canali: dai disertori dell’esercito regolare; dai ras locali, già legati al regime, che facevano i loro affari tenendo il piede in due scarpe o più spesso armando i rivoltosi proprio per dare motivi di intervento ai servizi segreti e alle truppe regolari; poi pian piano anche dai Paesi vicini. Così la rivoluzione ha perso definitivamente il suo carattere pacifico. Il 29 luglio 2011 si è formato l’Esercito libero, una realtà eterogenea sia sul piano religioso che sul piano etnico, come del resto è sempre stata la Siria».
E Bashar al Assad, tipicamente, ha sfruttato quest’eterogeneità, cercando di creare delle crepe al suo interno.
«Bashar ha impostato la sua retorica sulle tensioni derivanti da questa molteplicità etnica e religiosa. Ad esempio, è riuscito a convincere una parte della minoranza alawita e cristiana, ancora indecisa sul da farsi, a schierarsi contro la rivoluzione: diffondendo l’idea che i ribelli, in caso di vittoria, avrebbero preso il sopravvento su alcune minoranze e avrebbero ucciso cristiani e alawiti, Bashar (alawita lui stesso) si poneva come loro difensore. Al tempo stesso, cercava di attaccare i sunniti umiliandoli nella loro stessa identità, insultando il loro culto e il loro profeta. Ma quel che è peggio, è che la sua strategia non si è limitata al piano propagandistico; e ciò prova come la guerra in Siria sia un mosaico complicato, in cui tutti giocano più partite su vari tavoli, tenendo sempre qualche asso di riserva nella manica: in questa guerra, l’ambiguità è la parola chiave che regola i rapporti tra fazioni».
Ci parlavi di liberazioni di prigionieri ad hoc.
«Una mossa fondamentale attuata immediatamente dal regime, in due o tre riprese a partire dall’inizio della rivoluzione, è stata la liberazione dei prigionieri fondamentalisti a lui avversi, accompagnata dal rientro in Siria dei mujahiddin dal Libano e dall’Iraq. Sembra paradossale, ma lasciando liberi i propri stessi nemici o favorendo il loro ritorno, Bashar ha inoculato nella rivoluzione il germe della discordia. Ha favorito nel nord l’ingrossamento delle milizie di Jabhat al Nusra, affiliate ad al Qaida e dunque fondamentaliste (benché distinte dalle milizie ancor più estremiste che oggi chiamiamo ISIS); le forze di al Nusra sono penetrate, prima in via conflittuale e poi come semi-alleati, tra le fila dei rivoluzionari, giocando indirettamente per il regime e minando dall’interno un movimento dove le tendenze islamiche erano in genere assai più moderate.
L’effetto è stato triplice: la confusione e i dissapori tra i rivoluzionari, che si trovavano di colpo a sostenere la medesima causa dei fondamentalisti (la fine del regime di Assad), benché con propositi radicalmente opposti; il perfetto pretesto sfruttabile dal regime per una repressione ben più esplicita e violenta, che altrimenti sarebbe stata difficilmente giustificabile, vista soprattutto l’estensione della rivoluzione; la proiezione nel mondo di un’immagine contaminata della rivoluzione, di un’opposizione divisa, inaffidabile, litigiosa, impossibile da sostenere militarmente. Non potete immaginare quanto conti questa impressione all’estero. E non potete pensare quanto le atrocità di certi fondamentalisti oppositori di Bashar (le donne violentate nelle moschee con gli altoparlanti che trasmettevano le loro grida) abbiano atterrito perfino chi non ne poteva più del regime».
Quello che non riusciamo bene a capire è il ruolo dei curdi: in fondo loro erano stati sempre bistrattati dal regime, perché al nord non si sono subito uniti ai rivoltosi?
«Non diversamente da altri gruppi etnici, i curdi erano divisi sin dall’inizio tra favorevoli e contrari al regime, e hanno organizzato varie rivolte anche al nord. Ma Assad era ben cosciente di come la “questione curda” costituisse un problema delicato, ed è per questo che ha cercato di comprarli subito, nell’aprile 2011, concedendo loro la cittadinanza siriana che il regime gli aveva tolto nel 1962. È stata una mossa fondamentale, e assai lungimirante: quando sono arrivati quelli dell’ISIS (che venivano da fuori, ma in parte hanno assorbito le frange estremistiche messe in circolo da Assad stesso tra il 2011 e il 2012), i curdi si sono trovati a fungere da argine contro i tagliagole».
Come a Kobane.
«Appunto, come a Kobane. È stato il capolavoro di Bashar, che ora è diventato addirittura alleato militare dei curdi, per mero calcolo politico: dopo la conquista di Raqqa, che era della Rivoluzione ed ora è diventata la capitale dei tagliagole (un luogo simbolico, perché è da lì che il califfo Harun al-Rashid combatteva contro i Cristiani nel VII secolo), il dittatore ha costretto i suoi più dichiarati nemici internazionali ad allearsi con lui, nei fatti se non sulla carta; e quelli lo lasciano agire indisturbato nel resto della Siria, dove nella resistenza si mescolano ora molteplici fazioni, tra cui l’Esercito libero e Jabhat al Nusra, che prima si combattevano aspramente, ma che ora sono costrette, in alcune regioni, a fare fronte comune contro la tagliola di Assad e dell’ISIS.
I curdi, tramite le loro Unità di protezione popolare, fungono invece da carne da macello, e sperano che questo serva per la creazione di un loro stato, un po’ sul modello di quanto è avvenuto in Iraq: ma si tratta di mere illusioni, che la comunità internazionale sposa in malafede. Perché secondo voi i Turchi sono così riluttanti ad aprire corridoi per i curdi, o a concedere le loro basi, o a formare una no-fly zone? Né Erdogan né Bashar vogliono schiudere il benché minimo spiraglio a un intervento straniero che possa privarli anche solo temporaneamente della loro sovranità territoriale, e magari fomentare l’idea di un’unità politica dei curdi. Piuttosto i tagliagole».
Dunque si verifica il paradosso che per Assad l’ISIS è stata quasi una soluzione per uscire dall’angolo, e dare una svolta all’immobilismo della lotta contro i rivoluzionari?
«Nella rivoluzione non c’era nulla di tutto questo, al principio. Avevamo piani per la Siria, per un Paese nuovo, tollerante, senza forti ipoteche religiose. Con l’avanzare della Rivoluzione ci sono state, certo, delle tensioni, talvolta persino tra l’Esercito libero e gli attivisti; ma la lotta restava eterogenea, tanto che, quando hanno iniziato a circolare i fondamentalisti, quando cioè si è capito che tutto rischiava di precipitare, molti hanno lottato contro di loro per evitare che questa diventasse una rivoluzione islamica.
Invece l’avanzata dell’ISIS ha cambiato l’equilibrio delle forze in gioco, e quel che pareva essere un pericolo per Assad, ha finito per piegarsi in suo favore: l’azione dell’ISIS è ovviamente determinata a distruggere il regime, e parallelamente Assad ha ottenuto degli aiuti internazionali per cercare di frenare l’avanzata delle milizie fondamentaliste più estreme del Medio Oriente; eppure, è innegabile che vi sia, se non un sostegno aperto, almeno un certo laissez-faire da parte del regime. È risaputo, ad esempio, che, a Raqqa, le bombe lanciate dagli aerei di Assad non cadono in modo aleatorio e indiscriminato: sempre gli edifici, i mercati, sempre le case, ma quasi mai la piazza centrale, che dovrebbe al contrario essere il bersaglio principale, in quanto sede del potere e luogo dei raduni. E poi non bisogna scordare che l’ISIS è un fenomeno mercenario, basato un po’ sulla propaganda pulp, un po’ sull’incredibile quantità di denaro che circola oggi in Siria.
Prima della guerra civile, la produzione di petrolio in Siria era di 350-400mila barili al giorno, dopo il secondo anno di guerra era scesa quasi a zero, ora con l’invasione dell’ISIS (che occupa non a caso le zone desertiche) è a 2 milioni di barili: credete davvero che tutto questo (la conquista, la riapertura dei pozzi e soprattutto lo smercio del greggio) sia avvenuto e avvenga senza un certo aiuto del regime? Non pare possibile che l’ISIS, in tutta autonomia, possa vendere il suo petrolio e trovare esperti che sappiano estrarlo».
C’è stato però un momento, tra il 2011 e il 2012, in cui sembrava che il regime fosse sul punto di cadere: si dimettevano ministri, si ammutinavano battaglioni.
«Non c’è mai stata concretamente questa possibilità. Dalla rivoluzione si poteva uscire, teoricamente, in tre modi: con l’abdicazione del regime (esclusa a priori), con una negoziazione fra l’opposizione e il regime, o con l’intervento di forze esterne. Ora, l’intervento esterno era impossibile perché nessuno in Occidente, specie dopo le esperienze dell’Egitto e della Libia, ha un vero interesse a rovesciare un regime compiendo un altro salto nel buio, tanto meno in una regione geopoliticamente così importante.
– (Sulla Siria, aveva ragione Putin?)
In fondo Assad garantisce un governo stabile, sovrintende al legame con l’Iraq (dove si erano spostati i mujahiddin e dove Assad ha ancora una certa possibilità di manovra), e soprattutto assicura nei fatti, se non a parole, la pace con Israele (le alture del Golan rimangono sempre lì belle tranquille, mentre al confine col Libano si agitano rivendicazioni di ogni tipo). E poi c’è la lezione dell’Iraq, una guerra sbagliata che ha pregiudicato ogni intervento futuro nella regione, per quanto necessario».
Lo dice in effetti anche la New York Review of Books del mese di ottobre, illustrando le reticenze e le esitazioni di Obama proprio alla luce delle incertezze sul terreno che descrivi: la comunità internazionale ha inviato armi agli insorti, ma non a sufficienza per vincere davvero.
«E il New York Times l’ha ribadito pochi giorni fa: persino un giornalista tanto acclamato alla Casa Bianca per aver avuto l’inaudito coraggio di infiltrarsi nell’orrore della repressione di Assad, mostrando la morte nelle sue prigioni, quello stesso giornalista che ha denunciato da tempo il destino segnato di altri 150mila detenuti e che ha sperato in un intervento americano, è rassegnato all’evidenza di una discriminazione. Lo sdegno suscitato dalle sue fotografie non è stato né sarà mai sufficiente a scatenare una reazione che vada oltre il programma di addestramento dell’opposizione siriana moderata in Turchia e in Arabia Saudita. Questo dovrebbe servire, secondo la strategia perdente dell’amministrazione Obama, non solo a contrastare l’ISIS (che nel frattempo gli aerei americani bombardano), ma anche a permettere ai siriani di difendersi da Assad da soli. Così, mentre gli americani bombardano l’ISIS, Assad bombarda i civili».
E la negoziazione fra i rivoluzionari e il regime, una via d’uscita politica, non è mai stata davvero contemplabile?
«Vedete, ci sono due problemi convergenti: da un lato la tendenziale indisponibilità del regime anche solo a trattare; ma dall’altra parte, e ancor più importante, sta la mancanza di una cultura politica nell’opposizione: sbandate in tanti anni di dittatura, le forze progressiste non erano pronte a offrire una soluzione strutturata e autorevole di governo (hanno avuto difficoltà perfino in Egitto, dove erano capeggiate da un premio Nobel, figurarsi qui da noi), ed è per questo che è mancata nella nostra resistenza una figura come Jean Moulin, o al limite De Gaulle. Si è prodotto uno scollamento, uno scarto generazionale insanabile tra i giovani che pieni di entusiasmo e di coraggio combattevano nelle nostre città, e un’opposizione vecchia, sia anagraficamente che ideologicamente, dominata dai Fratelli musulmani in esilio, quella stessa opposizione che aveva subito la tremenda repressione dei massacri di Hama nel 1982 – di fatto l’ultimo atto di insubordinazione contro il regime, brutalmente soffocato da Assad».
Hama, la città dei mulini: i segni di quella mattanza vi sono ancora ben visibili. Ma allora, se la situazione è questa, per cosa combattete? Dalle tue parole sembra non vi sia più una vera speranza.
«Moltissime ondate di giovani sono state colpite, in parte con la morte, in parte con l’arresto, in parte con l’esilio. Ricordate sempre: allo stato attuale, su una popolazione di 23 milioni e mezzo di siriani, più di 200mila persone sono morte, di cui 6mila solo nel mese di ottobre appena concluso, e più di 3 milioni sono fuggiti – i più in Libano, in Turchia, in Giordania, e perfino in Iraq (ovviamente, queste cifre, che comprendono soltanto le morti ufficiali e i rifugiati con titolo, si possono tranquillamente moltiplicare). Il Paese è stato privato della sua forza propulsiva, e questo è un danno che comunque vada a finire la Siria sconterà per decenni. Tuttavia ci sono ancora molte parti del Paese in mano ai ribelli, da Aleppo a Idlib, da Homs alle montagne di Qalamoun e a Daraa dove tutto era cominciato; ovunque c’è ancora gente che combatte, ci sono città assediate e bombardate dal regime. Questo soprattutto volevo dirvi: l’attenzione mediatica sui tagliagole ha fatto completamente passare in secondo piano la catastrofe umanitaria ingenerata dalla violentissima repressione di Assad.
– (Tre anni di guerra in Siria)
Pochi giorni fa a Erbin, nei pressi di Damasco, è stato bombardato il mercato. L’ospedale della città è al collasso, dal 4 al 14 ottobre sono arrivati 975 feriti (di cui 180 bambini sotto i 5 anni, e 345 donne), ma non ci sono più ormai nemmeno il plasma, gli antibiotici, gli anestetici per le amputazioni, e in dieci giorni ben 63 pazienti sono morti per l’impossibilità di curarli adeguatamente. E così è in tanti altri posti: i bombardamenti sono continui e capillari, i piloti accendono la miccia con la sigaretta e sganciano giù; quanto poi alle armi chimiche, credete davvero che l’arsenale di Assad sia stato smantellato, o meglio ancora che le sue fabbriche non continuino a produrre anche dopo l’intervento con cui la comunità internazionale si è lavata la coscienza?».
Di questo in Occidente si parla ormai pochissimo.
«È così: dall’Occidente ci pervengono aiuti indispensabili, ma del tutto insufficienti se si considerano le enormi necessità che affliggono la Siria in questo momento; il lavoro di Medici senza frontiere è fondamentale, eppure anche loro – che hanno 3 ospedali nel nord della Siria – non possono più operare in molte zone perché troppo pericolose o perché totalmente off limits. L’Occidente, tutto preso dai tagliagole, di questa repressione non s’interessa più granché (salvo eccezioni, soprattutto in Francia), e anche per questa via l’ISIS sta facendo un enorme favore ad Assad. Ma noi non molliamo, è tutto quello che ci resta da fare, e non è poco. Noi che siamo fuori cerchiamo di mantenere viva l’informazione e di coordinare le operazioni, anzitutto tramite i social network che sono ormai indispensabili. La gente in loco organizza reti di solidarietà, ospedali sotterranei, stratagemmi di sopravvivenza. Sono state fondate persino delle scuole, salvo che poi non è detto che i bambini vi siano al sicuro; non ci resta che lavorare con la speranza che non accadano episodi come questo, la morte di 11 bambini (così dicono stime ufficiali, ma sono almeno 17) nella “Scuola della vita” in un sobborgo di Damasco».
“I sogni sono fiori / che tingono i miei giorni. // Fui ferito presto, / e presto appresi / che le ferite mi avevano formato. // Ancora inseguo il bambino / che cammina dentro di me. // Ora sta su una scala fatta di luce / cercando un angolo per riposarsi / e per leggere ancora la faccia della notte” (Adonis, Celebrando l’infanzia, 2003).
«La morte dei bambini è la singola cosa che non riuscirai mai ad accettare. È come una battaglia dell’antichità o del Medioevo, le pratiche sono le stesse (e non a caso uno snodo della guerra è il controllo del Krak dei Cavalieri, castello crociato del XII secolo). Mio fratello, per esempio, rischia la vita per far passare viveri e medicinali dentro un campo profughi o una città sotto assedio: riesci a farlo solo provando a corrompere qualcuno, di nascosto; e chiaramente, ogni volta che ci provi, ti avvicini al prescelto quasi certo di essere immediatamente ammazzato».
Uno dei campi profughi più grandi e più irrequieti del Paese è quello del quartiere di Yarmuk, che fa sempre venire in mente la battaglia epocale che proprio lì si tenne nel 636, quando gli Arabi sbaragliarono Eraclio e i Bizantini, e i califfi si aprirono la strada verso la conquista del mondo. Tu che sei Cristiano e cattolico, ti sei mai sentito a disagio nella rivoluzione?
«Mai, sin dal principio i nostri ideali erano chiari e netti; nell’Esercito libero c’erano alcuni islamisti, ma nessun vero fondamentalista. Chi è stato ad Aleppo ricorda come gli Armeni, gli Arabi, i Curdi, perfino gli Ebrei prima dello stato di Israele (il Codice di Aleppo, un manoscritto, è il testimone più importante della Bibbia) abbiano vissuto per secoli l’uno accanto all’altro. Oggi, la religione è stato il cavallo di Troia per dividere un movimento plurale. Voi italiani conoscete padre Paolo Dall’Oglio: lui era il simbolo vivente del dialogo, il suo monastero di Mar Musa era un simbolo per il Medio Oriente; nessuno ha preso il suo posto, e io temo che non lo rivedremo più. Del resto quando devi salvare le vite dei bambini non ti fai tante domande; quando, riparato in Libano insieme a tanti miei compagni, giravo la notte per le vie di Beirut senza un soldo, alla questua di fondi per i rifugiati e per gli assediati, nessuno di noi badava alla religione rispettiva».
Forse vendevi gelsomini, come nel Fantôme (Jasmin) di Latifa Echakch? “Il candore del gelsomino comincia da Damasco…”, diceva il tuo omonimo (Nizar Qabbani, La luna di Damasco, 1967).
«Quella poesia finisce “Damasco dà la forma all’identità degli Arabi: e nella sua terra si coniano le epoche…”. Chi come me viene dal mondo della città, da quella capitale indefinibile, ha vissuto un’esperienza atroce. Tutto quello che scrivo, negli ultimi tempi, ha a che fare con il senso di spaesamento, di alienazione, di perdita che si prova quando i luoghi vengono così profondamente trasformati, devastati, violentati, e i fiori del nuovo anno tardano a sbocciare. A Damasco, il giardino in cui incontravo la mia fidanzata è diventato un cimitero di cadaveri sepolti alla bell’e meglio. Avete presente il Bacio di Klimt dipinto sul muro di una casa bombardata? Ecco, così».
Un uomo si mette le mani al volto accanto alle rovine di una casa, Aleppo, 16 febbario 2014 (KHALED KHATIB/AFP/Getty Images)