Il successo dei piccoli produttori di auto giapponesi
Una storia che mette in discussione la teoria che per sopravvivere nell'industria dell'auto bisogna essere molto grandi (come dice Marchionne, tra gli altri)
di Andrea Fiorello – @andreafiorello
I piccoli produttori giapponesi di auto negli ultimi mesi stanno realizzando profitti elevati, smentendo apparentemente la diffusa teoria secondo cui per sopravvivere nell’industria dell’auto bisogna produrre in grandi numeri. In Giappone, infatti, accanto ai tre grandi costruttori Toyota, Nissan e Honda – che vendono rispettivamente circa dieci, cinque e quattro milioni di auto ogni anno – riescono ad andare avanti senza fallire o dover essere assorbiti da altri i marchi Mazda, Suzuki, Subaru, Mitsubishi e Daihatsu, i cui dati di vendita annuali vanno da uno a due milioni e mezzo di unità.
Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles, ha detto più volte che per fare profitto nel mondo dell’auto un gruppo industriale deve produrre almeno sei milioni di unità l’anno e anche per questa ragione ha portato a termine la fusione dell’americana Chrysler con il gruppo Fiat. I risultati da record dei gruppi Mazda e Fuji Heavy Industries (produttore dei modelli Subaru) nel semestre aprile-settembre 2014 sembrano andare contro questa teoria, peraltro maggioritaria nell’industria automobilistica.
Dopo anni di perdite, nella prima metà dell’anno fiscale 2014-2015 (in Giappone, a differenza della maggior parte delle nazioni, l’anno fiscale non segue il tradizionale ordine dei mesi ma va da aprile a marzo) l’“operating profit” o reddito operativo aziendale di Fuji Heavy Industries è cresciuto del 23,2 per cento su base annua, con un margine sulle vendite del 14,2 per cento, il valore più alto tra quelli degli otto produttori giapponesi. Nello stesso periodo il reddito operativo aziendale di Mazda ha superato le previsioni degli analisti crescendo del 41 per cento, con un margine sulle vendite del 6,4 per cento.
Questi costruttori, grazie a una gestione attenta e alla realizzazione di modelli di successo, sono riusciti a focalizzare la loro attenzione su redditività ed efficienza, piuttosto che sui volumi. Anche la svalutazione dello yen dovuta alle politiche economiche del premier giapponese Shinzo Abe e la crescita record del mercato automobilistico americano – ai massimi livelli degli ultimi otto anni – stanno aiutando in maniera determinante il successo di Mazda e Subaru, che costruiscono tre quarti delle loro auto in Giappone ma ne esportano circa l’80 per cento.
La discesa dello yen – cominciata nel 2011 dopo avere raggiunto il massimo storico – favorisce le esportazioni e incrementa i profitti, ma negli ultimi vent’anni l’economia giapponese ha vissuto un lungo periodo di stagnazione e valuta forte, che ha provocato una costante flessione del mercato e della produzione interna. Una situazione peraltro simile a quella europea di oggi. I costruttori di auto hanno reagito riducendo la capacità degli stabilimenti nazionali e aprendone di nuovi nei mercati d’esportazione, per essere meno dipendenti dalle fluttuazioni della moneta. Mazda, per esempio, produce la sua nuova Demio (che in Europa si chiama Mazda2) anche in Thailandia e in un nuovo stabilimento in Messico; Subaru sta aumentando la sua capacità produttiva nello stato dell’Indiana perché in Nord America vende più di Volkswagen; Mitsubishi sta aprendo una fabbrica in Indonesia che costruirà veicoli commerciali per il sud-est asiatico. Suzuki, invece, oramai da alcuni anni realizza buona parte dei suoi profitti dal mercato indiano, dove la sua divisione Maruti Suzuki è leader assoluta con il 50 per cento delle vendite totali.
La politica economica del premier Abe vorrebbe riportare i costruttori nazionali in Giappone, ma l’esperienza del ventennio passato e lo scarso impatto dei provvedimenti del governo sul mercato interno ne frenano l’efficacia, nonostante il mercato dell’auto in Giappone abbia sempre goduto di un forte protezionismo governativo. Questo è stato un fattore decisivo per la sopravvivenza dei piccoli produttori locali, che sono gli unici a costruire le Kei car, un tipo di auto esistente solo in Giappone che costituisce il 40 per cento delle vendite interne. Le Kei car sono modelli dalle dimensioni ridotte, che rispettano limiti legislativi imposti dal governo (lunghezza massima 3,4 metri, potenza massima 64 CV, dimensione massima del motore 0,66) e per questo vengono tassate molto meno rispetto alle auto normali.
Un mercato interno chiuso, la riduzione della capacità produttiva e l’ottimizzazione dei processi fino al più piccolo dettaglio hanno permesso alle case automobilistiche giapponesi più piccole di sopravvivere alla stagnazione economica, ma in futuro l’efficienza potrebbe non bastare: lo sviluppo di nuovi modelli e tecnologie richiede investimenti che un’azienda da un milione di auto l’anno non può permettersi.
Mazda e Subaru stanno cercando di superare questo limite sviluppando modelli in collaborazione con costruttori più grandi: la sportiva Subaru BRZ per esempio è stata sviluppata con Toyota, che produce un modello identico chiamato GT86. Mazda invece per risparmiare sui costi di sviluppo ha scelto di condividere la propria piattaforma per la nuova Spider MX-5 con il gruppo Fiat, che presenterà la sua versione tra la fine del 2015 e il 2016. Mitsubishi ha il vantaggio d’essere parte di un grande gruppo industriale, che può ammortizzarne le eventuali perdite, mentre Daihatsu è posseduta al 51 per cento da Toyota, quindi è già sotto il controllo di un marchio più grande. Se il mercato interno continuerà a essere debole e lo yen riprenderà a salire, però, allearsi con una grande casa potrebbe diventare una necessità per tutti e cinque i piccoli costruttori giapponesi.
foto: la Subaru WRX STI presentata a Detroit il 14 gennaio 2014. (GEOFF ROBINS/AFP/Getty Images)