22 mesi da ostaggio di al Qaida
Un giornalista statunitense ha raccontato la sua storia tremenda in un lungo articolo sul New York Times, tra conversioni, conversazioni, torture e tentativi di fuga
Mercoledì 29 ottobre il New York Times ha pubblicato un lungo racconto di Theo Padnos, cittadino statunitense rapito al confine tra Siria e Turchia e tenuto prigioniero per quasi due anni dal Fronte al Nusra, il gruppo che “rappresenta” al Qaida nella guerra civile siriana. Non è la solita storia del giornalista-americano-rapito-in-Siria: innanzitutto perché Padnos non è un classico inviato di guerra, poi perché nonostante sia passato dalle mani di al Qaida e abbia tentato più volte di fuggire alla fine sia rimasto vivo e sia tornato libero.
La storia di Padnos è iniziata un pomeriggio di ottobre del 2012: si trovava in Turchia e aveva appena incontrato tre giovani siriani che gli avevano detto di essere dell’Esercito Libero Siriano (ELS), uno dei gruppi militari più “moderati” che combattono il presidente Bashar al Assad, nato dalla diserzione di alcuni ufficiali dell’esercito siriano. Padnos si era unito a loro sperando di riuscire a raccontare la guerra in Siria sfruttando la protezione dell’ELS: superato il confine turco, Padnos era stato però costretto a inginocchiarsi nel mezzo di un oliveto. Era stato picchiato e i suoi rapitori avevano chiesto un riscatto alla famiglia. I tre giovani siriani non erano dell’ELS: appartenevano a un piccolo gruppo legato ad al Qaida. Quello che successe dopo è una storia terribile e angosciante. Padnos fu torturato, trasferito da un posto all’altro nel deserto siriano, messo in cella con miliziani dello Stato Islamico. Conobbe il numero due del Fronte al Nusra, Abu Maria al Qahtani o “Man of Learning” (l'”Uomo del sapere”), e tentò la fuga diverse volte. In particolare furono terribili i primi giorni di prigionia, ha scritto Padnos, oltre a tutto il resto:
«Durante i miei primi giorni là non riuscivo a credere che quello che stava succedendo stava succedendo proprio a me. Nella mia testa rivedevo le ore precedenti e successive a quando ero stato aggredito in Turchia. Era come se poco prima stessi camminando tranquillamente in un oliveto con degli amici siriani, e poco dopo fossi caduto nell’oscurità e mi fossi svegliato all’inferno, quel tipo di inferno che si immagina solo nei peggiori incubi»
Padnos fu liberato il 24 agosto 2014, una settimana dopo la diffusione del video che mostrava la decapitazione del giornalista americano James Foley, rapito e ucciso dallo Stato Islamico: fu consegnato dai miliziani di al Nusra a un centro gestito dalle Nazioni Unite sulle Alture del Golan.
Un passo indietro
Nel 2004, mentre gli Stati Uniti erano incastrati nella guerra in Iraq, Padnos decise di lasciare il Vermont, dove abitava con la famiglia, per andare a studiare l’Islam e l’arabo a San’a’, la capitale dello Yemen. La sua conoscenza del mondo arabo si approfondì a Damasco, in Siria, dove Padnos si trasferì per frequentare un’accademia religiosa: dalla capitale siriana scrisse qualche articolo a guerra iniziata, prima di tornare in Vermont nell’estate del 2012. Per qualche mese propose i suoi articoli ad alcuni giornali a Londra e a New York, senza avere troppa fortuna. Decise così di tornare in Siria: forse da lì le cose sarebbero andate meglio, pensava. Padnos arrivò ad ottobre ad Antiochia, in territorio turco, poco più a nord dal confine con la Siria nord-occidentale. E lì incontro i giovani siriani che gli dissero di far parte dell’Esercito Libero Siriano, il gruppo che per lungo tempo è stato considerato dagli Stati Uniti l’unica alternativa possibile al regime di Bashar al Assad in Siria. «Quasi immediatamente caddi in una trappola», ha raccontato Padnos.
I primi giorni di prigionia
I giovani siriani appartenevano a uno dei moltissimi gruppi che fanno riferimento ad al Qaida. Per la liberazione di Padnos chiesero alla famiglia l’equivalente di 250 grammi di oro (ma fecero male i conti: chiesero 400mila dollari invece di 10mila). «Nonostante il video e le richieste di riscatto, i rapitori erano inesperti»: una notte Padnos riuscì a liberarsi dalle manette con cui era stato legato a un uomo addormentato. Attraversò un cimitero e poi incrociò un minibus. Fermò l’autista e chiese: «Portatemi ora dall’Esercito Libero Siriano. È un’emergenza». Fu portato a un quartier generale dell’ELS: ma invece che liberarlo, i ribelli lo portarono di fronte a un tribunale islamico. Padnos fu nuovamente rinchiuso in una cella: i soldati dell’ELS tornarono poco dopo, in compagnia dei rapitori. Padnos fu portato in una “casa sicura” dell’ELS e fu lasciato in un buco nel pavimento. I suoi carcerieri lo picchiarono con un kalashnikov, gli tirarono addosso rifiuti di ogni tipo. Lo obbligarono a rispondere alle domande urlando: “Sono feccia, signore!”.
La consegna al Fronte al Nusra
Pochi giorni dopo Padnos fu consegnato ai miliziani di al Nusra e si accorse fin da subito cosa distingueva i combattenti islamici dall’ELS:
«I fondamentalisti pensano a loro stessi come l’avanguardia dell’emergente Stato Islamico. Ti torturano più lentamente, con strumenti specifici per quell’obiettivo. Non ti rivolgi mai a loro come “sir” (“signore”), perché quell’espressione ricorda quella di un esercito laico statale. Quando gli islamisti ti torturano, preferiscono che ci si rivolga a loro con un titolo che implichi un insegnamento religioso. Per i giovani combattenti “ya sheikhi!” (“oh, mio sceicco!); per i più anziani, “emiro”»
Padnos fu rinchiuso all’Ospedale pediatrico di Aleppo, che veniva usato come prigione e quartier generale del Fronte al Nusra (all’ospedale di Aleppo furono poi tenuti prigionieri anche i giornalisti americani James Foley e John Cantlie). Fu picchiato con un bastone e uno sprone da bestiame. Una pila di sacchi di sabbia fu posizionata in modo da bloccare la luce del sole che filtrava dall’unica finestra della sua cella. La luce elettrica rimaneva accesa qualche ora, poi veniva spenta: così al Nusra controllava il ciclo del sonno dei suoi prigionieri. Mangiava delle olive e una pasta di sesamo dolce chiamata halvah. Ogni mattina – bendato e con le mani legate – veniva portato in bagno e picchiato dalle guardie della prigione. Una mattina un jihadista turco si lanciò contro di lui: con un calcio di karate gli colpì il petto. Caddero a terra entrambi e Padnos si ruppe una costola.
Riflessioni sulla conversione e secondo tentativo di fuga
Nel gennaio 2013 il gestore della prigione di Aleppo offrì per la prima volta a Padnos l’opportunità di convertirsi all’Islam. Per un periodo Padnos credette che se si fosse convertito la sua vita sarebbe stata più facile. Presto si accorse che le cose non sarebbero andate comunque così. La terza settimana di gennaio arrivò nella sua cella un altro americano: Matthew Schrier, aspirante fotogiornalista di New York. Schrier – che per diverso tempo si era rifiutato anche di imparare una sola parola di arabo – a marzo si convertì all’Islam. Ma non ottenne cibo migliore, tanto meno la liberazione. Nel luglio dello stesso anno, dopo essere stati spostati in una prigione nella periferia di Aleppo, Padnos tentò un’altra fuga. Qualcosa però andò storto: Schrier riuscì a scappare, Padnos rimase indietro. L’episodio convinse ancora di più i miliziani di al Nusra che Padnos era una spia della CIA. Padnos venne bendato e gli vennero legati mani e piedi per almeno 45 giorni. Poi fu portato a circa sei ore di macchina lontano da Aleppo, da qualche parte vicino alla città orientale siriana di Deir al Zour.
La prigione a Deir al Zour e la scoperta dello Stato Islamico
La nuova prigione di Padnos era “confortevole”, rispetto alle precedenti: era formata da quattro celle, tutte piuttosto strette. Qui Padnos cercò di migliorare i rapporti con i suoi carcerieri e cominciò a ottenere abbastanza acqua e cibo. Sentiva che la liberazione era vicina: per passare il tempo cominciò a scrivere un romanzo utilizzando le pagine di un vecchio calendario che aveva trovato nella casa in cui era rinchiuso. Era una storia ambientata in Vermont, che parlava di “amore, casa ed entusiasmo religioso”. A metà giugno del 2014 fu concesso a Padnos di guardare la televisione per la prima volta da quando era stato rapito: vide una mappa che mostrava le conquiste dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). Padnos non ne sapeva nulla ma all’inizio di giugno l’ISIS aveva preso il controllo di diverse città irachene. Qualche mese prima, all’inizio del 2014, aveva rotto con al Nusra, e alla fine di giugno avrebbe proclamato la nascita del Califfato Islamico. A luglio Padnos fu trasferito a Dar’a’, una città della Siria meridionale vicina al lato orientale delle Alture del Golan. Fece il viaggio insieme all'”Uomo del sapere”.
La tappa a Damasco, e le cose nuove sull’ISIS
Il viaggio durò circa dieci giorni. L’”Uomo del sapere” raccontò a Padnos le difficoltà di essere un mujahid, un combattente. Padnos ha scritto:
«Un pomeriggio durante il nostro viaggio, lui mi disse che il mondo non l’aveva capito. “È difficile quando tutto il mondo ti vuole uccidere”, dissi io. “In più ora tutti quei problemi con l’ISIS. E anche Bashar al Assad probabilmente ti vuole uccidere”. “Sì”, rispose lui. “È vero. Ma l’ISIS è il peggiore. Loro mi hanno reso molto triste”. Lui sospirò. Era rassegnato»
Una notte, secondo il suo racconto, il convoglio di pick-up di Padnos fece tappa a un bunker a circa una trentina di chilometri a est di Damasco. Lo accolse un distaccamento dell’ELS, senza particolare calore. A quel punto Padnos doveva essere scambiato per un combattente di al Nusra (gli erano stati dati i vestiti del jihad). Scambiando qualche parola con i soldati dell’ELS e con i combattenti di al Nusra, Padnos apprese molte cose sull’ISIS e sui motivi della sua rottura con al Qaida (“erano in disaccordo su come dividersi i profitti provenienti dai giacimenti petroliferi della Siria orientale”, ha scritto). Era anche sollevato dalla separazione tra al Nusra e ISIS: «Se i loro eserciti si fossero riconciliati, io sarei diventato il prigioniero di un’organizzazione fondamentalista riunita sotto il comando del leader più forte, Abu Bakr al Baghdadi dello Stato Islamico» (non erano ancora cominciate le decapitazioni degli ostaggi occidentali ma la reputazione dell’IS era comunque già diffusa). Padnos venne a sapere anche come può un combattente di un gruppo ribelle passare dalla parte dell’ISIS: “deve fare solo qualche telefonata”. Deve dire alcune parole sulla grandezza di Baghdadi, e tutta la sua storia precedente viene dimenticata.
Il terzo tentativo di fuga
A metà luglio il convoglio che trasportava Padnos arrivò in una villa a Saida, un quartiere di Dara’a: lì, una mattina di agosto, Padnos tentò di nuovo la fuga (da quando si era allontanato da Deir al Zour godeva di una certa libertà di movimento). Fermò un motociclista e gli chiese di portarlo a un ospedale: «Sono un giornalista. Sono irlandese. Per favore, devi aiutarmi. Amo il popolo siriano», gli disse. «Non preoccuparti», gli rispose l’altro, «sono dell’ELS». Lo lasciò in una stanza per qualche minuto. Quando tornò era insieme a quindici soldati del Fronte al Nusra, armati di kalashnikov. Lo riportarono alla villa, dove c’era ad aspettarlo l’“Uomo del sapere”: «Questo pomeriggio ti ucciderò con le mie mani», gli disse.
Nella prigione di Dar’a’ Padnos ebbe tempo di chiacchierare con alcuni soldati di al Nusra e capire il loro progetto di mondo, per così dire. Padnos qualcosa aveva già visto e capito: durante la sua prigionia, per esempio, alcuni comandanti di al Nusra gli avevano presentato così i loro figli di 8 anni: “Lui sarà un martire suicida un giorno, per la volontà di Dio”. I bambini partecipavano anche alle sessioni di tortura. A volte indossavano quelle che sembravano essere grandi cinture esplosive e cantavano “distruggere gli ebrei, morte all’America”. Indottrinare i bambini, ha scritto Padnos, è anche l’obiettivo di al Nusra nel reclutamento di combattenti occidentali: i fondamentalisti sperano che nel tempo questi bambini si trasformino in jihadisti, che siano in grado di creare dei mini-emirati islamici nei paesi occidentali, come l’IS ha fatto a cavallo tra Siria e Iraq (non è chiaro se questa ricostruzione sia stata fatta sulla base di spiegazioni di pochi jihadisti di al Nusra o siano conclusioni di Padnos: a riguardo non ci sono altre conferme simili).
La liberazione
Un giorno di agosto alcuni importanti soldati di al Nusra arrivarono alla villa per un incontro. Molti avevano sul telefonino il video della decapitazione del giornalista americano James Foley, ucciso dallo Stato Islamico. Ridevano mentre agitavano i cellulari. Pochi giorni dopo, un pomeriggio del 24 agosto, l’“Uomo del Sapere” disse a Padnos: “Prendi le tue cose. Ti rimandiamo dalla mamma”. «Avevo detto addio a mia madre molto tempo prima nelle mie conversazioni telepatiche notturne. Non ci credevo – non volevo permettere a me stesso di crederci – che l’avrei vista di nuovo», ha scritto Padnos. Andarono verso le Alture del Golan. Si fermarono sotto alcuni alberi vicino alla città siriana di Quneitra. Arrivarono due furgoni bianchi con la scritta nera “U.N.” sui lati. Padnos fu fatto scendere dalla macchina dei jihadisti e fu fatto salire su un furgone delle Nazioni Unite. Padnos ha raccontato così quello che successe dopo:
«Alla base delle Nazioni Unite nella zona demilitarizzata tra Israele e Siria, un medico indiano mi fece sedere su un tavolo. Chiese all’assistente di lasciare la stanza. Mi fece togliere i pantaloni. Con una gentilezza da togliere il fiato, in silenzio, esaminò il mio corpo. Mi commossi moltissimo. Una rappresentante del governo statunitense mi incontrò dalla parte del confine israeliano. Nel sedile posteriore di un immacolato SUV nero mi mise la mano sulla spalla, e mi disse: “Va bene se piangi”. […] Parecchi giorni dopo mi giunse la notizia che il Fronte al Nusra aveva attaccato la base delle Nazioni Unite che mi aveva accolto così gentilmente».
Non è chiaro perché Padnos sia stato liberato, dato che notoriamente gli Stati Uniti non pagano riscatti: è una delle tante cose incredibili del suo racconto, che però è stato considerato affidabile e per questo pubblicato dal New York Times. Padnos ha parlato con vaghezza di una mediazione del Qatar.