Perché il prezzo del petrolio continua a scendere?
Ne produciamo sempre di più – nonostante l'instabilità del Medioriente – e ne consumiamo sempre di meno: qualcuno ci guadagna, qualcun altro potrebbe trovarsi nei guai
Tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno del 2014, c’è stato un significativo calo del prezzo del petrolio sui mercati mondiali: il prezzo al barile è sceso sotto i 90 dollari. Un generico calo del prezzo tra l’estate e l’inverno è piuttosto usuale: gli indici rilevati tra settembre e ottobre riflettono però un andamento anomalo, soprattutto se si considera anche che la situazione politica del Medio Oriente – la zona del mondo con le più grandi riserve di greggio – continua a essere molto grave e instabile: nelle ultime settimane, per esempio, si è parlato molto delle conquiste di alcuni giacimenti petroliferi iracheni da parte dello Stato Islamico. Anche altri produttori di petrolio stanno affrontando diverse difficoltà: la Libia, la Nigeria, la Russia e la Siria.
Nel rapporto mensile diffuso dall’OPEC a metà ottobre si legge che nell’ultimo mese gli stati membri dell’organizzazione hanno prodotto 400mila barili di greggio al giorno in più rispetto al mese precedente. Il Venezuela ha chiesto la convocazione di una riunione di emergenza per affrontare la questione della produzione, mentre l’Iran ha chiesto che si riducano i barili di greggio prodotti. La decisione dipende però in larga parte dall’Arabia Saudita, che ha ampio potere all’interno dell’OPEC e finora si è mostrata piuttosto restia ad acconsentire alle richieste di ridurre la produzione di petrolio (soprattutto per i timori di perdere fette di mercato in Asia). Riguardo al calo del prezzo del petrolio, diversi esperti e analisti hanno individuato almeno due cause, e tre conseguenze significative.
Prima ragione: l’aumento della produzione di petrolio
La prima ragione è l’aumento di produzione mondiale del petrolio – se aumenta la produzione c’è più offerta, e quindi il prezzo cala – determinato soprattutto da un aumento di produzione negli Stati Uniti. Grazie all’estrazione di petrolio da sabbie bituminose in North Dakota e Texas, la produzione statunitense di petrolio è salita a 8,5 milioni di barili al giorno, il più alto livello mai registrato dal 1986. Se si considerano anche i combustibili liquidi derivati dal petrolio, scrive il Washington Post, la produzione americana è quasi al livello di quella dell’Arabia Saudita. Allo stesso tempo sta aumentando anche la produzione del petrolio in Russia, dove si stanno raggiungendo gli alti livelli registrati nel 1987 (11,48 milioni di barili al giorno). Infine negli ultimi 14 mesi è cresciuta anche la produzione di petrolio in Libia, che era crollata a causa della guerra civile del 2011. Oggi in Libia si producono 925mila barili di petrolio al giorno: non è detto però che i ritmi che sta tenendo la Libia continuino a rimanere così alti nei mesi a venire, date le grosse violenze che si stanno verificando nelle ultime settimane tra islamisti, esercito e altre milizie paramilitari.
Seconda ragione: la riduzione del consumo di petrolio
La seconda ragione del crollo del prezzo del greggio riguarda una riduzione generale del consumo del petrolio. In Cina, uno dei maggiori importatori e consumatori di petrolio la mondo, la domanda di greggio non è cresciuta come ci si aspettava: nel corso del 2014 l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha abbassato la sua previsione annuale di crescita della domanda cinese di petrolio per cinque volte (nell’ultima stima si parla del 2,3 per cento; anche per il 2015 è stata abbassata la stima dal 4,2 al 2,3 per cento). Il consumo è calato anche negli Stati Uniti, soprattutto grazie a una politica annunciata dall’amministrazione di Barack Obama nel 2009, secondo la quale entro il 2025 le macchine vendute negli Stati Uniti dovranno fare in media 54,5 miglia con un gallone di benzina (circa 23 chilometri al litro: cioè dovranno consumare poco).
Ci sono poi i guai economici dell’Europa: la debolezza dell’euro ha fatto sì che diventasse molto più costoso per gli europei comprare il petrolio. Infine ha ridotto il suo consumo di petrolio anche il Giappone, che ha cominciato a sostituire sempre più spesso il petrolio con il gas e il carbone: il consumo giapponese potrebbe diminuire ulteriormente nel 2015, ha detto il dipartimento dell’Energia statunitense, quando verranno rimesse in funzione le centrali nucleari.
Prima conseguenza: i problemi della Norvegia
Secondo alcune stime il Mare di Barents, al largo della punta settentrionale della Norvegia, contiene circa il 40 per cento delle risorse petrolifere non ancora scoperte nel paese: è quindi visto come la chiave per aumentare dl produzione di petrolio nazionale, soprattutto visto il progressivo declino e “invecchiamento” dei giacimenti del Mare del Nord. Avviare i progetti per cominciare le trivellazioni nella zona, tuttavia, costa molto denaro (anche per la mancanza di oleodotti e piattaforme): e con i recenti problemi registrati dall’indice Brent – il mercato del greggio estratto nel Mare del Nord – l’inizio delle operazioni è stato rimandato di nuovo. La questione non riguarda solo gli eventuali benefici che ne ricaverebbe l’economia norvegese: il Mare di Barents si trova nel Circolo Artico, una regione che – secondo le stime della US Geological Survey – potrebbe contenere circa il 30 per cento delle riserve mondiali non ancora scoperte di gas e il 13 per cento di quelle di petrolio: far partire il progetto di sfruttamento dell’area, come dicono da anni molti analisti, potrebbe cambiare la geopolitica mondiale e rendere meno dipendente l’Europa e l’Asia dalle importazioni mediorientali.
Seconda conseguenza: effetti sulla politica mondiale
Il crollo del prezzo del petrolio, nonostante infligga un danno economico significativo ai paesi esportatori, potrebbe avere conseguenze in qualche modo positive per l’Occidente. Per esempio, nei primi otto mesi di quest’anno la vendita di petrolio e prodotti derivati ha costituito il 46 per cento delle entrate di bilancio russe. In un momento in cui l’Occidente sta cercando di sanzionare la Russia per le sue interferenze nella crisi in Ucraina orientale, scrive il Washington Post, una diminuzione del 10-20 per cento del prezzo del petrolio potrebbe contribuire a raggiungere lo scopo politico delle sanzioni (non si tratterebbe comunque di danni ingenti). Un discorso simile si può fare per l’Iran, le cui esportazioni di petrolio sono limitate dalle sanzioni occidentali (qui le sanzioni sono legate al rifiuto del governo iraniano di limitare il suo programma nucleare e aprire le proprie installazioni a ispezioni internazionali): se si riduce il prezzo del petrolio si riducono le entrate, e il governo iraniano potrebbe essere costretto a raggiungere un accordo sul nucleare per alleggerire le sanzioni.
Terza conseguenza: gli effetti (notevoli) sulle singole economie
In generale, scrive l’Economist, il primo vincitore del calo del prezzo del petrolio è la stessa economia mondiale. Una variazione del 10 per centro del prezzo del petrolio è associato a una variazione dello 0,2 per cento del Prodotto Interno Lordo globale, ha detto Tom Helbling del Fondo Monetario Internazionale. Quando cala il prezzo del petrolio le risorse si spostano dai produttori ai consumatori, che sono più propensi a spendere i loro guadagni rispetto agli sceiccati del Golfo. A queste variazioni di prezzo del petrolio, gli effetti riguardano direttamente le economie di tutti i paesi. Il mondo produce poco più di 90 milioni di barili al giorno di petrolio: a 115 dollari al barile, si parla di un valore la produzione che raggiunge circa i 3.800 miliardi di dollari l’anno; a 85 dollari al barile il valore scende a 2.800 miliardi di dollari l’anno.