Come va Gucci
Non benissimo, a causa delle minori vendite nel settore degli accessori di lusso, che ha coinvolto altre grandi aziende come Prada e Louis Vuitton
Giovedì il gruppo francese Kering, a capo di diverse aziende di accessori di lusso, ha fatto sapere che nel terzo trimestre del 2014 la società Gucci – una delle sue aziende più importanti e tra le più famose al mondo – ha fatto registrare un calo delle vendite dell’1,6 per cento, rispetto allo stesso trimestre dell’anno scorso. Le vendite di tutto il gruppo Kering, che comprende anche altre marche minori in rapida espansione, sono invece complessivamente cresciute del 3,3 per cento, raggiungendo i 2,6 miliardi di euro. Il Wall Street Journal ha scritto della recente crisi del settore dei prodotti di lusso, che negli ultimi mesi ha interessato anche altre due aziende famose in tutto il mondo: Louis Vuitton e Prada, che – come Gucci – sono quotidianamente impegnate nella ricerca di un compromesso complicato: mantenere alto il livello di eleganza e di esclusività dei propri prodotti, e contemporaneamente aumentare le vendite per soddisfare gli investitori.
Un grafico del Wall Street Journal mostra che le vendite dei tre marchi Louis Vuitton, Gucci e Prada sono rimaste pressoché invariate nell’ultimo anno. Dal 2012 al 2013 le vendite di Louis Vuitton sono leggermente calate, dopo anni di crescita regolare del 10 per cento annuale. Nell’anno in corso le vendite di Prada sono rimaste praticamente stabili nel primo semestre, mentre nel primo semestre del 2013 le vendite erano cresciute del 32 per cento rispetto al primo semestre del 2012. Gucci è quella che sta perdendo di più e da più tempo, rispetto alle altre due: nel primo semestre del 2014 le vendite sono scese del 4,5 per cento (per capirci: dal 2009 al 2010 Gucci aveva fatto registrare un aumento di vendite del 17 per cento).
Secondo la società di consulenza statunitense Bain, la crescita delle vendite mondiali di accessori di lusso in genere, tra cui borse e scarpe, negli ultimi anni ha avuto un rallentamento, e non soltanto per Gucci. Si stima che alla fine di quest’anno le vendite saranno cresciute del 5 per cento, due punti percentuali in meno rispetto al 2013 e addirittura undici punti percentuali in meno rispetto al 2012.
Dopo esser stata per oltre un decennio, negli anni Novanta, una delle marche di riferimento nel settore degli articoli di lusso molto costosi, negli ultimi anno Gucci ha tentato di espandersi sul mercato per ottenere maggiori vendite, spiegano esperti e analisti, ma ha finito per ridimensionare l’esclusività della marca occupando il mercato in diverse fasce di prezzo. «I suoi prodotti non sono più “unici” come lo erano prima», ha detto Pierre Francois Le Louet, capo della società di consulenza Nelly Rodi. «Al momento Gucci ha troppi prodotti e troppi negozi, e la sua fascia di prezzi è veramente troppo ampia rispetto ad altre marche di lusso», ha aggiunto Le Louet.
Tra le altre ragioni che hanno provocato la crisi di vendite nel settore dei prodotti di lusso, spiega il WSJ, ci sono anche contingenze storiche come la fine della crescita smisurata di questo genere di mercato in Cina, le sanzioni europee contro la Russia e, in genere, la crisi economica in Europa. Oltre a questi fattori, la crisi delle grandi marche storiche come Gucci è stata anche favorita dalla rapida espansione di concorrenti come Delvaux e Celine, capaci di attirare una clientela in cerca di alternative.
Il Wall Street Journal riporta anche alcuni casi singolari e specifici, ma significativi, di clienti che dicono di non voler più indossare prodotti facilmente riconoscibili, che denoterebbero lo status di chi li indossa. «Non voglio essere categorizzata, non voglio che qualcuno per strada mi guardi e sappia da lontano chi ha prodotto la mia borsa e quanto ho speso per acquistarla», ha detto al WSJ una dirigente milanese di 35 anni. Anche per motivi del genere, in tempi recenti, molte aziende hanno intensificato la produzione di accessori senza logo (negli ultimi anni, Gucci aveva fatto l’esatto contrario).
Gucci è stata fondata dall’imprenditore Guccio Gucci a Firenze nel 1921: all’inizio era soltanto un’azienda specializzata in prodotti da pelletteria ma nel giro di pochi decenni ebbe un notevole successo, tanto da arrivare ad aprire nel 1953 il suo primo negozio a New York. Divenne rapidamente una delle marche più famose e utilizzate tra artisti e celebrità come Audrey Hepburn, e rimase in quella posizione per molto tempo fino agli anni Ottanta, quando alcuni contrasti familiari interni provocarono un rapido declino. Uno dei motivi principali di quel declino, spiega il WSJ, è che Gucci cominciò a espandere il proprio marchio producendo una serie molto vasta ed eterogenea di prodotti – dai portachiavi alle tazze – e perse progressivamente quella specializzazione che aveva invece reso celebre l’azienda in tutto il mondo. Grazie all’ingresso in società dei due manager Domenico De Sole e Tom Ford, Gucci riuscì negli anni Novanta a superare la fase di crisi e a ottenere un nuovo successo su scala mondiale: le vendite furono più che decuplicate in tredici anni, dal 1991 al 2004, anno in cui Ford e De Sole hanno lasciato l’azienda in seguito ai contrasti con la nuova proprietà francese (PPR, oggi nota come Kering).
Le scelte di mercato portate avanti da Kering, a partire dal 2008, hanno di fatto favorito la produzione e l’affollamento di numerosi articoli con il marchio “G” di Gucci in diverse fasce di prezzo, a partire da borse da 500 euro: questa fascia più bassa di prezzo – definita “entry level” – arrivò a costituire circa il 32 per cento delle vendite complessive di Gucci. Allo stesso tempo Kering continuò a sviluppare altri marchi del gruppo di più recente formazione o acquisizione, come Saint Laurent, Balenciaga e Bottega Veneta, che a quel punto miravano in parte agli stessi clienti di Gucci, o se non altro alla stessa fascia di mercato (Gucci cominciava a occuparne molte e diverse, appunto). «Gucci fece il grande errore di sottovalutare quelle nuove marche», ha detto al WSJ l’amministratore delegato di Gucci Patrizio Di Marco, nominato nel 2008 dal capo di Kering Francois Pinault.
Gli stessi dati diffusi giovedì scorso da Kering mostrano che, nel terzo trimestre del 2014, Saint Laurent e Bottega Veneta hanno aumentato le vendite rispettivamente del 28 e del 10 per cento. Di Marco è stato amministratore delegato di Bottega Veneta dal 2001 al 2008, e diversi analisti ritengono che sia stato messo da Pinault a capo di Gucci proprio alla luce della grande crescita di Bottega Veneta durante gli anni di gestione di Di Marco (le vendite sono aumentate di dieci volte in sette anni). Proprio la presenza del logo di Gucci su praticamente tutti i prodotti dell’azienda (circa il 90 per cento del totale, a un certo punto) è stata una delle cause della crisi, secondo Di Marco, la cui strategia è stata quella di investire nella produzione destinata alla fascia di prezzi intermedia e ridurre la presenza del logo sui prodotti. Attualmente la “G” del logo di Gucci è presente sul 37 per cento degli accessori prodotti.
Alcuni analisti ritengono che recentemente Gucci non abbia incrementato adeguatamente la produzione di prodotti esclusivi, nella fascia alta di prezzi (tra 2.500 a 4.500 euro), quella che serve ad attirare i clienti molto ricchi. La produzione in quel settore specifico è cresciuta soltanto dell’1 per cento da settembre 2013 a maggio 2014, secondo la società di consulenza Sanford C. Bernstein. Louis Vuitton ha incrementato le vendite in quella fascia del 6 per cento, e ha aperto nuovi negozi a una velocità minore rispetto a Gucci: negli ultimi cinque anni Louis Vuitton ha aperto circa 30 nuovi negozi, contro i quasi 200 di Gucci.
L’attrice Abby Earl, il 12 giugno 2014, a Beverly Hills, California.
(Valerie Macon/Getty Images)