La morte di Ben Bradlee
Fu forse il più famoso direttore di quotidiano di sempre, fece diventare il Washington Post quello che è oggi e guidò le inchieste sul Watergate
di Robert G. Kaiser - The Washington Post
Benjamin C. Bradlee, che aveva diretto la redazione del Washington Post per 26 anni e ne aveva guidato la trasformazione in uno dei maggiori quotidiani del mondo, è morto il 21 ottobre nella sua casa di Washington, per cause naturali. Aveva 93 anni.
Dal momento in cui prese il controllo della redazione del Washington Post nel 1965, Bradlee cercò di creare un giornale importante che andasse assai oltre il modello tradizionale di un quotidiano cittadino. Ottenne il risultato mescolando notizie clamorose basate su inchieste aggressive e storie appassionanti del tipo fino ad allora ospitato dalle migliori riviste. Il suo fascino e la sua capacità per la leadership lo aiutarono ad assumere e ispirare un gruppo di talento e lo resero infine il più celebrato direttore di giornale del suo tempo.
La più grande storia della gestione di Ben Bradlee, e di certo quella di maggiori conseguenze, fu il Watergate, uno scandalo politico generato dalle inchieste del Washington Post che produsse le uniche dimissioni di un presidente nella storia degli Stati Uniti. Ma la sua decisione più importante, presa insieme all’editrice Katharine Graham, fu probabilmente la pubblicazione degli articoli basati sui Pentagon Papers, una storia segreta della guerra in Vietnam basata su documenti del Pentagono. L’amministrazione Nixon andò in tribunale per ottenere di poter bloccare quegli articoli, ma la Corte Suprema degli Stati Uniti avallò la decisione del New York Times e del Washington Post di pubblicarli.
Il presidente Obama ha ricordato l’eredità di Ben Bradlee martedì sera in una dichiarazione:
«Per Benjamin Bradlee, il giornalismo era più di una professione, era un bene pubblico vitale per la nostra democrazia. Un vero uomo di giornali, ha trasformato il Washington Post in uno dei migliori quotidiani del paese, e con lui alla guida un crescente esercito di reporter ha pubblicato i Pentagon Papers, svelato il Watergate e raccontato storie che andavano raccontate: storie che ci hanno aiutato a capire un po’ meglio il nostro mondo e noi stessi. Gli standard che ha fissato per un giornalismo accurato, obiettivo e onesto hanno incoraggiato molti altri a entrare nella professione. E per quegli standard l’anno scorso sono stato orgoglioso di consegnare a Ben la Presidential Medal of Freedom. Oggi offriamo i nostri pensieri e le nostre preghiere alla famiglia di Ben e a tutti quelli che sono stati così fortunati da condividere con lui quella che è stata una vita davvero bella».
La diffusione del Washington Post quasi raddoppiò con Ben Bradlee alla guida della redazione – prima come direttore operativo e poi come direttore esecutivo – e raddoppiò anche la dimensione della redazione stessa. E Bradlee diede al giornale delle ambizioni. Collocò corrispondenti in tutto il mondo, aprì uffici nell’area di Washington e da una costa all’altra degli Stati Uniti, e creò sezioni e pagine – tra cui Style, una delle invenzioni di cui fu più fiero – che furono ampiamente copiate dagli altri.
Durante la sua direzione un giornale che aveva fino ad allora vinto solo quattro premi Pulitzer, solo uno dei quali per un’inchiesta, ne vinse altri diciassette, compreso il premio per il Servizio Pubblico per la copertura del Watergate.
«Ben Bradlee è stato il migliore direttore di giornale americano del suo tempo e nessun altro ha avuto un impatto grande come il suo sul proprio giornale», ha detto Donald E. Graham, che ereditò da sua madre il ruolo di editore del Washington Post e di capo di Bradlee. «Molto del Post è Ben. Lo ha fatto così come lo conosciamo oggi», disse la signora Graham nel 1994, tre anni dopo che Bradlee si era ritirato.
– Tutta la storia dello scandalo Watergate
Il bell’aspetto aristocratico, la voce grave, il vocabolario volgare e l’entusiasmo per il giornalismo e per la vita contribuivano alla personalità carismatica che dominò e formò il quotidiano. I direttori dei quotidiani americani raggiungono raramente una fama pubblica, ma Bradlee divenne una celebrità e gli piaceva. Jason Robards lo interpretò nel film “Tutti gli uomini del presidente”, basato sul libro di Bob Woodward e Carl Bernstein sul Watergate. Due suoi libri divennero dei bestseller. Il suo viso scavato diventò un’immagine familiare in televisione. In pubblico e in privato, faceva sempre la parte di se stesso con passione teatrale.
«Era una presenza, una forza», disse Woodward commentando il periodo del Watergate, dal 1972 al 1974. «Ed era uno scettico, dubbioso: “Ce l’abbiamo? È fondato?”». Decenni dopo Woodward ricordò le parole di Bradlee che più aveva odiato sentire: «Non ce l’hai ancora, ragazzo».
Ma la sua forza qualche volta divenne una debolezza. Il direttore che sapeva ispirare le sue truppe verso il miglior giornalismo mai pubblicato in America inciampò anche in una creativa falsificazione da parte di una giovane reporter, Janet Cooke. Cooke si inventò un eroinomane di otto anni di nome Jimmy e ne scrisse un articolo commovente. Dopo che ebbe vinto il Pulitzer nel 1981, si svelò che Cooke era un’impostrice che aveva inventato non solo Jimmy ma anche la propria storia.
Quando scoprirono che Cooke si era creata una biografia immaginaria, Bradlee e i suoi colleghi la interrogarono e ne ottennero una confessione. Bradlee restituì il Pulitzer e chiese al public editor del Washington Post, Bill Green, di indagare e raccontare come era potuto accadere. Fu il più importante incarico mai dato al rappresentante interno dei lettori: Bradlee aveva creato il ruolo nel 1970, rendendo il Washington Post il primo maggiore quotidiano con un critico interno indipendente. Green produsse un dettagliato e imbarazzante rapporto su una redazione in cui l’ansia per il risultato giornalistico aveva prevalso sui dubbi di molti esperti reporter a proposito dell’esistenza di Jimmy. «Bradlee ne fu molto ferito», ha raccontato uno dei vice di Bradlee di allora, Peter Silberman.
Bradlee amò la storia del Watergate, soprattutto perché diede al giornale un “impatto”, la sua parola preferita nei primi anni da direttore. Voleva che il giornale fosse notato. Nel suo gergo particolare che combinava parolacce imparate in Marina durante la Seconda guerra mondiale e un’impeccabile pronuncia da nobile bostoniano, un buon articolo era uno “strappatubo”. Voleva dire che una storia era così forte che i lettori avrebbero strappato il tubo in cui il quotidiano veniva consegnato agli abbonati. Una storia mediocre era invece “mego”: acronimo per “my eyes glaze over”, “mi si appannano gli occhi”, con cui definiva ogni cosa che lo annoiasse. La sua strategia era massimizzare gli strappatubi e minimizzare i mego. Ed era semplice anche la sua tattica: «Arruola gente più brava di te», e incoraggiali a crescere.
Bradlee aveva una soglia di attenzione notoriamente molto bassa. Raramente approfondiva lui stesso i particolari di una storia, lasciando che lo facessero quelli che aveva assunto. Gestiva la redazione con una combinazione di intelligenza e viscere, spesso giudicando le persone sulla base delle sue reazioni personali. «Mi fa ridere» era forse il suo maggiore complimento per qualcuno. Non gli sono mai piaciuti i dettagli della gestione e dedicava poco tempo al lavoro di amministrazione se riusciva a evitarlo.
David Halberstam, che vinse un Pulitzer per il New York Times e dedicò al Washington Post buona parte del suo libro “The Powers That Be”, disse di Bradlee in un’intervista: «Prese il Post, allora ricco e pieno di potenziale sottoutilizzato, e ne fece un formidabile quotidiano nazionale capace di competere testa a testa col New York Times. Lo fece rendendo il giornale stesso un meraviglioso posto in cui lavorare, che rifletteva la sua personalità. Era esuberante, competitivo e combattivo se sfidato. Fece del Post una calamita per i giovani giornalisti desiderosi di un’opportunità di giocare una partita importantissima».
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