“I due volti di gennaio”, il libro
Le prime pagine del romanzo di Patricia Highsmith da cui è tratto il film con Viggo Mortensen, Kirsten Dunst e Oscar Isaac, al cinema in questi giorni
La scorsa settimana è uscito al cinema I due volti di Gennaio, il primo film da regista di Hossein Amini (sceneggiatore di Drive, tra le altre cose), con Viggo Mortensen, Kirsten Dunst e Oscar Isaac: racconta la storia di una coppia di statunitensi in viaggio in Europa e in fuga dalla polizia, e del loro rapporto con un ragazzo di origini americane conosciuto in Grecia. Il film è un adattamento dell’omonimo romanzo della scrittrice statunitense Patricia Highsmith (1921-1995), famosa soprattutto per i racconti brevi e i thriller psicologici, da cui sono stati tratti altri adattamenti cinematografici come L’altro uomo di Alfred Hitchcock (il titolo originale del libro e del film è Strangers on a Train) e Il talento di Mr Ripley diretto da Anthony Minghella.
Di seguito il primo capitolo del libro, pubblicato in Italia da Bompiani con la traduzione di Vincenzo Vega.
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Alle tre e mezzo di un mattino ai primi di gennaio, uno stridore allarmante destò Chester MacFarland nella sua cuccetta sulla San Gimignano. Chester balzò a sedere e attraverso l’oblò vide una luminosa muraglia arancione che scorreva rasente la fiancata della nave. Il suo primo pensiero fu che stessero strusciando contro la sponda di un’altra nave; scese dunque dalla cuccetta e, ancora mezzo addormentato, si sporse su quella della moglie per guardare più da vicino. La parete, che scopri essere di pietra, era ricoperta di nomi e numeri incisi sulla roccia. NIKO 1957, lesse, seguito da un W MUSSOLINI e da un americaneggiante PETE ’60. In quell’istante la sveglia cominciò a trillare, e Chester, rovesciando la bottiglia di whisky piazzata ai piedi della brandina, la agguantò. Schiacciò il pulsante che arrestava la suoneria e allungò la mano a prendere i vestiti.
“Tesoro … che succede?” domandò con voce assonnata Colette.
“Se non sbaglio siamo entrati nel canale di Corinto,” disse Chester.
“O altrimenti siamo maledettamente vicini a un’altra nave. Ma l’orario è quello. Sono le tre e mezzo. Vieni sul ponte?”
“Uhm … no,” mormorò Colette, e si rincalzò le coperte fin sul collo. “Poi me lo racconti tu.”
Sorridendo, Chester le scoccò un bacio sulla guancia calda di sonno.
“Io vado sul ponte. Torno subito.”
Appena uscito dalla porta che dava sul ponte, Chester si imbatté nell’ufficiale da cui aveva saputo che alle tre e mezzo avrebbero attraversato il canale.
“Sissignore! Siamo nel canale!” disse a Chester l’ufficiale.
“Grazie!” Chester sentì un brivido di eccitazione e di avventura, e, afferratosi con la mano al parapetto, si drizzò contro il vento gelido. Sul ponte c’era solo lui. Le sponde del canale erano alte almeno una sessantina di metri. Sporgendosi dal parapetto e guardando a destra e a sinistra, Chester non vide altro che buio. Era impossibile capire quanto fosse lungo il canale. Gli tornò in mente la guida della Grecia che aveva sfogliato prima di addormentarsi, e si ricordò che in scala il canale era lungo poco meno di cinque centimetri. Sei chilometri, pensò, o giù di lì. Quel corso d’acqua così importante era opera dell’uomo – pensiero che gli diede una sensazione piacevole. Chester notò i segni di trapano e di piccone ancora visibili sulla roccia arancione – o era piuttosto argilla? Alzò lo sguardo sino al punto dove la sponda del canale lasciava spazio al buio, e più in alto ancora verso le stelle spruzzate sul cielo greco. Nel giro di qualche ora avrebbe visto Atene. Pensò che sarebbe stato bello rimanere sveglio tutta la notte: poteva andare a prendere il soprabito in cabina e poi tornare sul ponte e fermarsi lì mentre la nave solcava l’Egeo verso il Pireo. Ma l’indomani sarebbe stato stanco morto. Dopo qualche minuto, Chester tornò in cabina e si coricò. Qualche ora più tardi, con la San Gimignano ormai approdata nel porto del Pireo, Chester si faceva largo in mezzo a una vociante folla di passeggeri che sciamavano in coperta e di facchini saliti a bordo per aiutare a scaricare i bagagli. Chester aveva comodamente fatto colazione in cabina, preferendo attendere finché la maggior parte dei passeggeri fosse sbarcata; ma, a giudicare dalla ressa sul ponte e nei corridoi, lo sbarco non era neppure iniziato. La città e il molo del Pireo avevano un aspetto sporco e disordinato. Con grande delusione di Chester, e nonostante si sforzasse di scoprirne almeno un balenio sull’orizzonte caliginoso, da lì Atene non si vedeva. Si accese una sigaretta e scrutò attentamente le figure che si accalcavano sul molo. Facchini in tuta blu. Un paio di tizi in soprabito liso, che camminavano avanti e indietro guardando la nave: avevano l’aspetto più da cambiavalute o da tassista che da poliziotto, pensò Chester. Il suo sguardo spazzò la scena da sinistra a destra e viceversa. No: era improbabile che tra loro ci fosse qualcuno che aspettava lui. La passerella era stata calata; anziché attendere sul molo, chi eventualmente fosse venuto a cercarlo sarebbe salito a bordo, no? Ovvio. Chester si schiarì la gola e aspirò piano una boccata di fumo di sigaretta. Poi si voltò e vide Colette.
“La Grecia,” disse lei, sorridendo.
“Già. La Grecia.” Le prese una mano. Le dita di Colette si distesero, poi si intrecciarono alle sue. “Sarà meglio trovare un facchino. Le valigie sono pronte?” Lei annui. “Ho incontrato Alfonso. Ha detto che le porta su lui”
“Gli hai dato la mancia?”
“Sì. Duemila lire. Giusto?” I suoi profondi occhi blu fissarono Chester. Le lunghe ciglia ramate palpitarono due volte. Poi Colette soffocò un improvviso sorriso, un sorriso di contentezza e di affetto. “Stai pensando ad altro. Ti ho chiesto se duemila lire bastano,”
“Duemila lire sono perfette, tesoro.” Chester la baciò rapidamente sulle labbra.
Alfonso emerse dal boccaporto con metà del loro bagaglio, posò le valigie sul ponte e tornò dabbasso per prendere le rimanenti. Quando tornò, Chester lo aiutò a portare il bagaglio giù per la passerella e sul molo, dove tre o quattro facchini si avventarono sulle valigie, accapigliandosi per chi dovesse prenderle.
“Un attimo! Aspettate un attimo, per favore,” disse Chester .
“Soldi. Devo cambiare i soldi.” Sventolò il libretto degli assegni da viaggio, poi si avviò speditamente verso il chiosco di un cambiavalute, accanto all’ingresso del molo. Cambiò venti dollari.
“Per favore!” disse Colette, battendo protettivamente la mano su una valigia; i facchini smisero di accapigliarsi, incrociarono le braccia e attesero, contemplandola ammirati. Colette – quello era il nome che aveva scelto a quattordici anni, preferendolo a Elizabeth – aveva venticinque anni, era alta un metro e sessantacinque, aveva capelli castano ramati, labbra piene, un naso perfettamente dritto e spruzzato di lentiggini, e occhi incredibilmente belli, di un blu scuro tendente al lavanda. I suoi occhi guardavano fisso e diretto tutto e chiunque, come gli occhi di un bambino curioso e intelligente e smanioso di imparare. In genere gli uomini guardati da Colette si sentivano affascinati e pietrificati dal suo sguardo; in esso c’era qualcosa di misterioso, e quasi tutti, di qualunque età fossero, pensavano: “È come se stesse innamorandosi di me. Possibile?” La maggior parte delle donne, invece, trovava quello sguardo e Colette stessa ingenui, troppo ingenui per essere pericolosi; il che era una gran fortuna, poiché altrimenti le donne avrebbero potuto essere gelose o sospettose della sua avvenenza. Colette era sposata con Chester da poco più di un armo; lo aveva conosciuto rispondendo a un’offerta di lavoro per una segretaria e dattilografa part-time, fatta pubblicare sul New York Times da Chester. Le erano bastati due giorni per capire che l’attività di Chester non era esattamente trasparente – s’era mai visto un agente di cambio che operasse da casa propria anziché da un ufficio? E comunque dov’erano le sue azioni in Borsa? – ma Chester aveva molto fascino; era chiaro che aveva un fracco di soldi, e che i soldi entravano a flusso continuo, il che per Colette significava che non c’erano guai in vista. Chester era stato sposato, per otto anni, con una donna, morta di cancro due anni prima che Colette lo conoscesse. Chester aveva quarantadue anni, era ancora un bell’uomo, aveva le tempie brizzolate e tendeva a metter su pancia – ma Colette, dal canto suo, tendeva a metter peso un po’ dappertutto, e quindi per lei stare a dieta era una cosa normale. Era abituata a preparare pranzetti appetitosi, benché a basso contenuto calorico. “Ecco, pronti,” disse Chester, mostrando una manciata di dracme.
“Tesoro, scegli un taxi.”
Lì attorno c’ era una mezza dozzina di taxi, e Colette scelse quello di un tassista dal sorriso affabile. Tre facchini li aiutarono a caricare sul taxi i sette colli di bagaglio, due dei quali vennero sistemati sul tetto – e finalmente partirono alla volta di Atene. Chester si sedette davanti, sempre con lo sguardo fisso sull’orizzonte nella speranza di scorgere finalmente il Partenone o qualche altro simbolo della Grecia stagliato nel cielo azzurro. E di colpo si trovò a guardare un’immaginaria Walkie Kar, grande quanto tutta Atene, rossa e cromata, con le sue orrende manopole gommate e quel patetico sellino a coppa. Chester rabbrividì. Che stupidaggine, che rischio inutile e insensato! Gliel’aveva detto anche Colette: quando l’aveva scoperto si era arrabbiata un po’, e aveva perfettamente ragione.
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