Parlate di quando morirete
Il Washington Post propone di superare le divisioni sul suicidio assistito, tornate attuali con la storia di Brittany Maynard, e riprendere una discussione più ampia che riguarda ognuno di noi
di Ellen Goodman – Washington Post
Ellen Goodman ha 73 anni, ha lavorato a lungo come opinionista per il Washington Post, ha vinto un Premio Pulitzer nel 1980.
Non c’è modo di ascoltare la voce di Brittany Maynard senza rimanere profondamente toccati. Tragicamente colpita da un tumore al cervello e da una diagnosi terminale, Maynard ha deciso di fare le cose in grande, per trasformare il suo terribile destino personale in una storia pubblica.
Ha afferrato il copione già scritto nella sua risonanza magnetica e ha trasformato la sua parte da vittima in una missione. Il mondo adesso sa che si è trasferita in Oregon, dove un dottore ha potuto prescriverle le pillole per morire, che ora porta nella borsetta. Maynard, un’ex alpinista, parla del “sollievo” emotivo che le offrono le pillole ora che ha deciso di precedere il suo destino e dichiarare vittoria sul terrore della sofferenza.
Eppure io mi sono sentita a disagio nel vedere questa storia diventare un argomento virale in rete. In parte ho paura che Maynard sia diventata l’ultima tragedia del momento: una settimana, una secchiata di acqua gelata per la SLA; la settimana dopo, una 29enne che decide il giorno della sua morte medicalmente assistita.
Queste storie sono spesso classificate in base ai numeri. Quasi 8 milioni di visualizzazioni del video di Maynard. Migliaia di like. Decine di televisioni che si fanno la guerra per averla. Un’attesa della morte fissata nel bagliore mediatico dell’attenzione collettiva.
Ma, cosa più importante, la storia di Maynard ha momentaneamente fatto arretrare un dibattito in crescita sull’assistenza ai malati terminali, riportandolo alla battaglia sulla questione controversa del suicidio assistito. È esattamente il genere di dibattito per cui siamo famosi qui in America: uno di quelli che genera più baruffe che risposte, polemiche grandissime ed effetti minimi.
La decisione di Maynard di avere il controllo sulla fine della sua stessa vita è la storia di una persona su cinquecento. Letteralmente. Persino in Oregon, dove il suicidio medicalmente assistito è legale da più tempo, solo una persona su cinquecento tra quelle che muoiono in casi accomunabili a quello di Maynard fa questa scelta. Perché, mi sono chiesta, dobbiamo continuare a concentrare le nostre energie e la nostra rabbia in un dibattito che riguarda lo 0,2 per cento? E dell’altro 99,8 chi se ne occupa?
È diventato talmente abituale costruire barricate, estremizzare i poli di ogni discussione, che ci siamo dimenticati quello su cui siamo d’accordo. Specialmente quando si parla delle difficili scelte alla fine della vita. Per una persona che cerca il sollievo del disporre delle pillole nella borsetta o nell’armadietto delle medicine, ce ne sono 499 che vogliono la sicurezza di poter morire con un tipo di sollievo molto diverso. Per una persona che deve finire in tribunale perché siano rispettate le sue volontà alla fine della vita, ce ne sono altre 499 che dipendono dalle loro famiglie e dall’assistenza medica. Se da un lato queste fazioni lottano sui provvedimenti riguardo la legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, dall’altro lato la maggior parte delle persone concorda su un fatto: abbiamo bisogno di cambiare il modo in cui moriamo.
Lo scorso autunno un sondaggio del gruppo “The Conversation Project”, che ho collaborato a fondare, ha mostrato che circa il 90 per cento degli americani pensa che sia importante discutere riguardo il modo in cui intendono vivere i loro ultimi giorni di vita. È un dato straordinario: su niente è d’accordo il 90 per cento degli americani. Eppure soltanto il 30 per cento di quelle persone discute effettivamente di questo argomento. Non dovremmo cominciare a farlo?
Un recente rapporto dell’Institute of Medicine sulla morte negli Stati Uniti descrive un sistema sanitario miseramente carente per ciò che riguarda la fine della vita. Troppe persone non muoiono nel modo che sceglierebbero. Troppe persone che sopravvivono vengono lasciate con sensi di colpa e depressione, a chiedersi se hanno fatto la cosa giusta. Se il suicidio medicalmente assistito fosse legale in ogni stato, sarebbe giusto una parziale riduzione di questa dura realtà.
Comprendo che ci sono casi in cui la migliore medicina può non alleviare il dolore. Maynard potrebbe essere uno di questi casi. Rispetto pienamente la sua scelta. Ma è pericoloso pensare che possiamo cambiare un intero sistema concentrandoci su un solo caso. Il cambiamento arriverà soltanto quando avremo colmato il divario, quando le nostre volontà saranno espresse e rispettate. Continuo a pensare a quello che Maynard ha detto riguardo la vita alla fine: “Cogliete l’attimo. Cosa è importante per voi? Cosa vi preoccupa? Cos’è quello che conta? Raggiungetelo”.
Se tutte le persone che hanno visto quel video vogliono fare qualcosa che conta veramente, aprano a tavola una conversazione con le persone che amano, con le persone al posto delle quali potrebbero trovarsi a dover parlare. Sul sito www.theconversationproject.org trovate materiale d’aiuto per cominciare la conversazione. Ma cominciatela. Cominciate a parlare di quello che vi importa alla fine della vostra vita. Scegliete qualcuno che possa parlare al posto vostro, se voi non potrete parlare per voi stessi. Parlatene.
Mi viene in mente un’altra cosa che ha detto Maynard: “I pensieri che vi vengono in mente, quando scoprite che avete soltanto così poco tempo, è tutto quello che avete bisogno di dire alle persone che amate”. Non fate passare quel momento.
© Washington Post
Foto: AP Photo/Maynard Family