Lavorare meno = lavorare meglio
Dopo un certo numero di ore, ovviamente: lo spiega Slate con tabelle ed esempi pratici, raccontando l'esperienza del fondatore di OpenView
di Jeff Sutherland - Slate
Adattato dal libro “Scrum: The Art of Doing Twice the Work in Half the Time” di Jeff Sutherland.
Quando Scott Maxwell, fondatore di OpenView Venture (una società che compie investimenti rischiosi sperando di ottenere guadagni molto alti), lavorava come consulente di McKinsey all’inizio degli anni Novanta, ricevette uno strano discorso di incoraggiamento da Jon Katzenbach, un dirigente della sua società. Katzenbach gli disse che quando era entrato nella società, negli anni Settanta, tutti lavoravano sette giorni a settimana. A quei tempi si faceva così: se lavoravi di meno, voleva dire che non stavi facendo la tua parte.
Per motivi religiosi, però, Katzenbach lavorava solo sei giorni a settimana. Dopo un po’, aveva cominciato a notare che riusciva a portare a termine più lavori di quanto facessero i suoi colleghi (tutti maschi, allora). Aveva deciso così di provare a lavorare solo cinque giorni a settimana: e aveva scoperto di essere diventato ancora più produttivo. Lavora più a lungo, disse Katzenbach a Maxwell, e porterai a termine meno cose. Katzenbach raccontò anche di aver sempre voluto provare a ridurre la settimana lavorativa a tre o quattro giorni, ma che temeva che l’azienda non avrebbe accettato.
Maxwell prese in giro l’idea di Katzebach, così come fecero altri giovani consulenti. Ma il suo discorso gli rimase in testa per anni. Poi Maxwell arrivò a Open View: qui la cultura lavorativa era in qualche modo integrata con l’idea che i dipendenti dovessero lavorare molto, anche i weekend. Le persone a Open View erano aggressive e ambiziose: ma si stavano deprimendo e demoralizzando da sole. Maxwell cominciò a realizzare che superata una certa soglia di ore diventava inutile continuare a lavorare: si era improduttivi. Un giorno, mentre si trovava nel suo ufficio, disegnò questa curva su una lavagna.
Sull’asse delle ordinate è indicata la produttività, mentre sulle ascisse le ore di lavoro settimanali. Il picco di produttività, come si vede dal grafico, crolla appena dopo le quaranta ore settimanali. Sulla base di questi dati, Maxwell cominciò a far uscire prima dal lavoro i propri dipendenti. Maxwell ha raccontato: «ci è voluto un po’ prima che mi prendessero sul serio. A un certo punto, però, si sono adeguati».
Maxwell cominciò poi a dire ai propri dipendenti che lavorare fino a tardi non era un segno di maggiore impegno, bensì di fallimento. Spiegava ai suoi dipendenti: «Non è che voglio farti vivere in maniera più equilibrata. È solo che [lavorando meno ore] porterai a termine più cose.»
Oggi a OpenView non si lavora più né durante la notte né durante i weekend. Quando la gente va in vacanza, ci deve andare davvero: vuol dire che non deve controllare la mail o contattare l’ufficio. Se un dipendente non riesce a prendersi del tempo per sé senza assicurarsi di continuo che al lavoro vada tutto bene – è il pensiero che ci sta dietro – vuol dire che non se la sta cavando al meglio. Aggiunge Maxwell: «molte società non applicano [dei limiti all’orario lavorativo]. Ma c’è una diretta correlazione: fai più cose, sei più felice e hai una migliore qualità della vita.
La curva è comunque differente per ciascuna persona; e può anche subire delle modifiche a seconda di un particolare periodo della vita. Maxwell ha osservato inoltre che il suo personale picco nel corso degli anni è arretrato (impiega cioè meno tempo ad eseguire un certo carico di lavoro): secondo lui, c’entrano anche alcuni fattori come la salute fisica, la dieta e i problemi personali. Ma crede anche che nel tempo sia riuscito a raggiungere prima il proprio picco di produttività perché è diventato più maturo e ha capito meglio in che modo svolgere il suo lavoro.
Ma in che modo, materialmente, lavorare meno ore comporta che siano portati a termine più compiti? Sembra non avere senso. Maxwell spiega che le persone che lavorano troppo commettono anche più errori, cosa che in seguito richiede grandi sforzi per rimediare. Chi lavora troppo, inoltre, si distrae più facilmente e prende cattive decisioni.
Nell’aprile del 2011, un gruppo di scienziati israeliani ha pubblicato una notevole ricerca sulla capacità di prendere decisioni: ha studiato più di un migliaio di giudizi emessi da otto giudici che presiedono due differenti commissioni che si occupano dei permessi di libertà vigilata. I giudizi hanno riguardato sia ebrei israeliani che arabi israeliani i cui crimini andavano dalla truffa, allo stupro, fino all’omicidio. La maggior parte dei casi riguardava proprio richieste di libertà vigilata. Gli otto giudici erano molto stimati e avevano anni di esperienza pratica e teorica alle spalle che usavano per compiere decisioni che avrebbero condizionato non solo la vita dei detenuti, ma anche più in generale dell’intera comunità.
Qual era quindi il fattore che contava di più nel processo decisionale? Il pentimento del detenuto? Il suo comportamento in prigione? La gravità del crimine compiuto? Nessuna di queste. È venuto fuori che il fattore più decisivo fra tutti era il tempo trascorso dall’ultimo panino mangiato dal giudice. I ricercatori hanno studiato a che ora i giudici avevano emesso ciascun giudizio, se il permesso era stato garantito, e quanto tempo era passato dall’ultima pausa. I giudici che erano appena tornati da uno spuntino o dal pranzo avevano dato parere positivo per il 60 per cento delle volte. Nel tempo che occorreva poi per giungere alla successiva pausa, il tasso scendeva praticamente a zero. In pratica, dopo una pausa i giudici tornavano con un’attitudine più positiva ed emettevano giudizi più compassionevoli. Dopo aver bruciato le proprie riserve di energia, cominciavano a prendere delle decisioni più conservative.
Se vi azzardaste a mettere in dubbio l’equità di queste decisioni, state certi che i giudici si sentirebbero offesi. Ma i numeri – e i panini – non mentono. Quando non abbiamo più energia, tendiamo a compiere decisioni diverse. Il fenomeno è noto come “esaurimento dell’io”: è l’idea che ciascuna scelta richieda un certo consumo energetico. In questo caso, anche se una certa persona non si sente fisicamente stanca, le sue capacità di scelta diminuiscono.
Nel corso di un altro studio, un gruppo di matricole universitarie è stato diviso in due sottogruppi. Uno di questi non aveva alcuna decisione da prendere. Ai partecipanti del secondo gruppo, invece, venivano forniti dei prodotti ed era chiesto di rispondere a domande del tipo: «che tipo di marca di shampoo preferisci? Ti piace questo tipo di dolci o quell’altro?» e così via. In seguito, tutti quanti venivano sottoposti al classico test di autocontrollo: quando a lungo puoi resistere con la mano dentro a un contenitore di acqua ghiacciata? Le energie bruciate nel compiere decisioni sono le stesse utilizzate dall’autocontrollo. Gli studenti del gruppo che aveva dovuto prendere un sacco di decisioni non riuscivano a mantenere la propria mano nell’acqua ghiacciata tanto a lungo quanto quelli del primo gruppo. E non di poco: quasi della metà. Non hai preso nessuna decisione? Resisti in acqua più di un minuto. Hai preso un sacco di decisioni? Meno di 30 secondi.
In pratica, c’è un numero limitato di decisioni importanti che una certa persona può compiere in qualsiasi giornata. Più decidi, e più erodi la tua abilità di controllare il tuo stesso comportamento. Di conseguenza, staccate dal lavoro alle 17. Spegnete il cellulare nei weekend. Guardate un film. E, cosa più importante, mangiatevi un panino. Non caricandovi troppo, otterrete di più e lavorerete meglio. A chi importa quante ore ci abbia messo una persona a fare una certa cosa? L’importante è che sia portato a termine velocemente e con un risultato all’altezza.
foto: Ian Gavan/Getty Images for O2