Il malato di ebola in Texas peggiora
Le persone che gli sono state vicine sono tenute sotto controllo, ma anche i familiari non a rischio raccontano di essere esclusi e tenuti a distanza dai conoscenti
Ci sono dieci persone che sono entrate in contatto con Thomas Eric Duncan – l’uomo proveniente dalla Liberia a cui è stata diagnosticata un’infezione da ebola virus a Dallas in Texas – che hanno un «rischio elevato» di aver contratto la malattia. Tra queste, secondo quanto riferito dai funzionari dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC), ci sono i quattro familiari di Duncan che hanno condiviso con lui l’appartamento dopo il suo arrivo negli Stati Uniti e che sono già stati messi in quarantena, e alcuni operatori sanitari. Le altre quaranta persone che hanno avuto contatti diretti con Duncan dal momento dello sviluppo dei sintomi dopo il suo arrivo negli Stati Uniti e fino al ricovero in ospedale sono monitorate quotidianamente, ma il rischio che abbiano contratto il virus è definito relativamente basso. Nessuno ha comunque finora mostrato i sintomi della malattia.
Domenica 5 ottobre il direttore del Centro federale per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie, il dottor Thomas R. Frieden, ha dichiarato che «le condizioni di Thomas Eric Duncan sono passate da serie a critiche» e che «sta lottando per la sua vita». Frieden ha poi detto che Duncan non ha ricevuto alcun siero sperimentale per trattare l’ebola nonostante le richieste dei familiari. L’ospedale, il Texas Health Presbyterian, non ha rilasciato commenti sulle condizioni di Duncan.
Duncan era arrivato in Texas per andare a trovare Luis Troh, una donna liberiana di 54 anni con cui aveva avuto una relazione agli inizi degli anni ’90 e con cui ha avuto un figlio, Karsiah. Troh, che è in quarantena con i suoi altri figli e ci rimarrà per le prossime due settimane poiché lo aveva ospitato a casa per 8 giorni, ha rifiutato di parlare della loro storia con i giornalisti. Si sa però che nel 1998 la coppia si separò e la donna partì dalla Liberia per Boston, per poi andare a vivere con un altro uomo, Peterson Wayne, a Dallas. Duncan non ha visto né il figlio né la donna per i seguenti sedici anni, fino alla separazione di Troh dall’uomo che aveva seguito in Texas, avvenuta in marzo. Dopo alcuni contatti Duncan era partito per Dallas, dove è atterrato il 20 settembre. Secondo il reverendo George Mason, pastore di Troh alla chiesa battista Wilshire, «era venuto con l’intenzione di sposare Luis e di ricominciare una vita insieme».
Dopo una prima emergenza (si tratta infatti del primo caso di ebola diagnosticato negli Stati Uniti), una ricostruzione dei fatti (anche con l’aiuto del responsabile della sicurezza negli aeroporti liberiani) e l’identificazione e il ritrovamento delle persone con cui Duncan è entrato in contatto, le autorità americane hanno preso delle iniziative per controllare e contenere il rischio di contagi.
I contatti più rischiosi con Duncan per un possibile contagio erano avvenuti tra il 24 e il 28 settembre: Duncan aveva contratto il virus ebola mentre si trovava a Monrovia, in Liberia; il 20 settembre era arrivato negli Stati Uniti, il 25 si era recato in ospedale. I medici lo avevano però rimandato a casa consigliandogli una cura antibiotica, nonostante Duncan avesse detto a un’infermiera di essere arrivato da poco dalla Liberia. Il 28 i familiari di Duncan hanno chiamato un’ambulanza per farlo portare d’urgenza in ospedale, il Texas Health Presbyterian Hospital, dove l’uomo è stato ricoverato. Se il ricovero fosse avvenuto subito, quando cioè Duncan si era rivolto per la prima volta all’ospedale, si sarebbero sensibilmente ridotte le possibilità di contagiare altre persone.
Scrive il New York Times: «La confusione è indicativa della miriade di protocolli locali, statali e federali» che hanno generato delle domande anche sull’effettiva capacità delle infrastrutture sanitarie del paese nel gestire la malattia e un’ipotetica epidemia. Tra gli errori principali c’è stato proprio quello che ha portato all’iniziale dimissione di Duncan. L’informazione che l’uomo proveniva dalla Liberia era stata data a un’infermiera ma non era stata trasmessa alla squadra di diagnostica: e senza quest’informazione fondamentale i medici lo avevano rimandato a casa. Le autorità dell’ospedale hanno fatto sapere che sia gli infermieri che i medici hanno rispettato il protocollo, ma che c’è un difetto nel modo in cui nella cartella clinica elettronica si incrociano il flusso di informazioni proveniente dagli infermieri con quello dei medici. E hanno assicurato che il sistema di integrazione sarà migliorato.
Un altro problema ha riguardato il ritardo con cui è iniziata la disinfestazione dell’appartamento in cui fino a qualche giorno fa viveva Duncan (e che ora è in corso): la squadra incaricata non aveva ottenuto per diversi giorni i permessi per potere trasportare lenzuola, asciugamani e altri oggetti potenzialmente infettati fuori dall’appartamento e per strada. Questi problemi sono stati denunciati a diversi giornali dai familiari di Duncan, che stanno affrontando un isolamento forzato da parte della comunità liberiana. Nonostante molti di loro non siano a rischio, vicini e conoscenti li tengono a distanza, per paura di contrarre l’ebola: molte persone non hanno capito che è praticamente impossibile contrarre la malattia senza aver toccato i fluidi corporei di una persona infettata o sono comunque sospettose. Una delle figlie di Troh, Youngor Jallah, è stata indicata da una sua vicina con queste parole: «È una della famiglia dell’ebola».
Intanto, secondo un articolo della CNN, altre nove persone in Liberia stanno morendo probabilmente a causa del contatto con la stessa donna incinta che ha contagiato Duncan prima che partisse per il Texas. Tutti i vicini della donna, Marthalene Williams, sono stati messi in quarantena: si parla di circa un centinaio di persone.
Foto: la disinfestazione dell’appartamento in cui ha abitato Thomas Eric Duncan dopo il suo arrivo negli Usa, Dallas, Texas, 5 ottobre 2014 (Joe Raedle/Getty Images)