Confessioni di una vittima dello shopping
Il primo capitolo del romanzo di Radhika Jha, pubblicato da Sellerio
È uscito per Sellerio il libro Confessioni di una vittima dello shopping, di Radhika Jha, tradotto da Alfonso Geraci. Jha, scrittrice indiana che ha vissuto per diversi anni in Giappone e scrive in inglese, racconta la storia di Kayo, una donna sposata benestante e con due figli che dopo aver incontrato una vecchia compagna di scuola viene introdotta in un “club” formato da donne con l’ossessione dello shopping. Il club farà scivolare Kayo in una drammatica dipendenza, con conseguenze molto pericolose.
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Io ho un segreto. Faccio parte di un club. I suoi membri li trovi dappertutto, a Ginza, a Marounouchi, ad Aoyama e a Omotesando: i migliori quartieri della città. È un club molto ma molto grande, senz’altro il più grande club di Tokyo, del Giappone, forse del mondo intero. Ma non è un club famoso. Non devi compilare un modulo, per entrarne a far parte. Non devi vestirti o comportarti in una data maniera. Il club non ha neppure un nome. Non si paga l’iscrizione né la quota mensile; ma le spese che devi sostenere per starci dentro sono tali da ridicolizzare la retta del più esclusivo golf club di Chiba. Non ci sono limiti di età; ma per esservi accettati bisogna che passi un po’ di tempo.
In effetti, il segreto è la stessa esistenza del club. Nel senso che i suoi membri non si conoscono l’un l’altro. Ci incontriamo per la strada, questo sì. Poco a poco, impariamo a riconoscerci. Capita pure che ci si sorrida. Ma non ci interessa far conoscenza tra di noi. E questa è una delle regole non scritte.
Far parte di un club non è come far parte di un gruppo. Di un qualche gruppo fai parte nel momento stesso in cui nasci. Tu sei un uomo, io sono una donna. Tu sei americano, io sono giapponese. Non è una cosa che si possa decidere: è già decisa. Non c’è scelta.
Entrare a far parte di un club, invece, è come un matrimonio d’amore: qui sì, che si sceglie. Sarà per questo che tutti quanti vogliono far parte di un club. Finché non troviamo il nostro club, il nostro spirito è privo di un’ancora, costantemente inquieto. E più tempo passa prima di trovare quello giusto, più forte è l’inquietudine. Poi, un bel giorno, troviamo il club del quale dobbiamo fare parte. Fine del vagabondare per i sentieri della vita: che adesso finalmente ha uno scopo. La fila all’ingresso sarà pure lunga, ma noi aspettiamo con pazienza, pieni di quello spirito di sopportazione che chiamiamo gaman. E quando la porta del club si apre e chiamano il nostro nome, possiamo infine fare il nostro ingresso, orgogliosi.
Ad ogni buon conto, una restrizione c’è: soltanto le donne possono far parte del club. Gli uomini dicono che le signore non sono in grado di mantenere un segreto: e invece quelli lì sono proprio gli uomini. Il mio club è il segreto meglio custodito di tutti i segreti di Tokyo. Perché molti dei suoi membri non sanno neppure di essere entrati a farne parte.
Il mio non sarà il più antico club di Tokyo, ma è senz’altro quello più consistente dal punto di vista dei numeri. Nessuna di noi sa quante siamo, di preciso. Ma io le appartenenti al club le vedo dovunque: sul metrò, per la strada, nelle banche e negli uffici, negli ospedali. Sì, ma come fate – mi chiederai – a riconoscervi? Non posso parlare per le altre, ma io ho un talento particolare. Le mie sorelle le riconosco al primo sguardo. E a volte il mio sguardo è ricambiato da un sorrisino, o anche solo da un’alzata di sopracciglio.
Se fossi diversa da quello che sono, potrei farci i soldi, sfruttando questo talento. Le banche e le compagnie di carte di credito mi pagherebbero milioni. Ma per me tutti i membri del club sono altrettante sorelle. Conosco le loro abitudini. So che cosa stanno pensando alle sette di sera, mentre preparano la cena. O alle undici del mattino, mentre passeggiano per Ginza, in attesa che le commesse dei negozi le facciano entrare. E so che cosa pensano alle tre del pomeriggio, di martedì, a Marounouchi, mentre si affrettano verso il metrò a capo chino e con aria colpevole. Il cuore mi si riempie d’orgoglio nell’adocchiare quelle più carine: così alte, così snelle, così belle, con quelle silhouette che non invecchiano mai. Però è il coraggio di quelle anziane e stanche, ma che continuano a voler restare giovani, a commuovermi fino alle lacrime. Quante umiliazioni debbono aver patito per restare così a lungo nel club!
Come tutti i club, il mio ha le sue fazioni e le sue lotte intestine. Ci sono due principali gruppi contrapposti: le casalinghe e le impiegate. Le prime hanno il tempo per spendere, ma pochi quattrini. Entrano nei negozi e prima di comprare guardano e poi guardano e poi guardano ancora. Corrompono le commesse per farsi invitare alle megasvendite. Hanno immaginazione, creatività: i risultati di tanta fatica sono di una tale eleganza che non posso non andare orgogliosa soprattutto di loro.
Le impiegate hanno soldi da spendere, ma non hanno tempo. Lavorano in ufficio dalle nove del mattino fino alle otto o alle nove di sera; e vanno a far shopping nel fine settimana o durante la pausa pranzo, o anche dopo il lavoro, se hanno la fortuna di finire prima che chiudano i negozi. Si lamentano sempre, un po’ come fanno in famiglia le sorelle minori. Dicono che noi mogli siamo fortunate, che ci accaparriamo la roba migliore mentre loro debbono accontentarsi dei nostri avanzi. Ecco perché non sono ben vestite come noi, dicono loro. Ma la verità è un’altra. Il fatto è che queste qui sono ragazzine. Non vogliono crescere, non sanno cucinare. Comprano un sacco di schifezze: vestiti coi fiocchetti, camicette a fiori. E i fiori li ritrovi pure sulle loro borse e sulle loro sciarpe. E poi gli accessori: computer e cellulari che sbrilluccicano, chiavi con la suoneria, le unghie incrostate di gioiellini. A loro piace credere di poter rubare l’amore dei nostri uomini. Ma si sbagliano. Non ce lo possono rubare perché è già venduto. Appartiene all’azienda per cui i nostri uomini lavorano: è lei che possiede il loro amore. L’unico spazio rimasto per un’impiegata si trova all’interno del loro ego. Se l’impiegata di turno sa come prendersi cura di quell’ego, potrà anche tenersi l’uomo. Altrimenti lo perderà.
C’è anche un terzo gruppo, disprezzato dagli altri due: quello delle casalinghe che vestono come impiegate. Le donne che ne fanno parte sono attrici consumate, dentro le quali il desiderio arde di una tale fiamma che perfino i loro corpi sembrano giovani e virginali. Ma è un’illusione. Il fatto stesso che le trovi dentro i negozi alle undici e alle tre, mentre le vere impiegate lavorano, le sbugiarda. Lo sanno anche gli uomini, eppure nel vederle il loro sguardo si ravviva: e in effetti quelle del terzo gruppo meritano l’ammirazione di cui sono oggetto. Perché non c’è nulla nel loro aspetto che sia lasciato al caso: dalle lunghe unghie lucenti alla meticolosa acconciatura dei capelli, fino alle sciarpe di Hermès e alle borse Louis Vuitton. E che combinazioni di colori: porpora e arancione, lilla e marrone, grigio e blu ghiaccio. Non ce le trovi, in mezzo alle pagine di una rivista di moda: le hanno inventate le mie sorelle, che le sfoggiano con audacia per le strade di Tokyo. Quando vado a passeggio per le strade di Ginza o di Minami Aoyama non mi sento mai sola, perché sono circondata dalle mie sorelle e posso camminare orgogliosa.
Chiamatelo pure, se volete, il club delle amanti della bellezza. Ma noi non amiamo la bellezza di qualcun altro. Non andiamo a caccia di «belle cose», non ci riempiamo la casa di roba carina ma inutile. Non facciamo chilometri per vedere un bel paesaggio o un uccello raro; non paghiamo cifre assurde per ascoltare quello che gli stranieri chiamano «la bella musica». Questo perché non stiamo lì a concupire la bellezza creata dagli altri. Vogliamo creare il nostro genere di bellezza, sulla nostra persona. E la bellezza che creiamo noi non è qualcosa di statico, di passivo: noi facciamo e disfiamo ogni santo giorno. Siamo noi le vere estete, perché è sui nostri corpi che vive la nostra bellezza. Ed anche se le case che abitiamo sono vecchie e cadenti, e le pareti puzzano di noia e di fiacca, noi siamo giovani, fresche e stupende. E i nostri vestiti ed il trucco sono la perfezione stessa.