Che succede in Argentina
I guai finanziari si accumulano uno sull'altro, si è dimesso il Governatore della Banca Centrale e il governo non sembra all'altezza della situazione
«L’economia è stagnante e l’inflazione è in aumento», dice dell’Argentina l’Economist di oggi spiegando che la situazione è peggiorata a partire dallo scorso primo ottobre quando, per un contrasto con la presidente Cristina Kirchner e col ministro dell’Economia, Juan Carlos Fábrega, governatore della Banca centrale argentina, si è dimesso dopo meno di un anno dall’assunzione dell’incarico. Il suo posto è stato preso da Alejandro Vanoli, considerato molto vicino a Kirchner ed ex capo della Comisión Nacional de Valores, che si occupa di vigilare e regolamentare il sistema finanziario del paese. Vanoli dovrà affrontare una situazione molto complicata: l’alta inflazione, il default e la recessione.
La scorsa settimana, e prima delle dimissioni di Fábrega, Kirchner aveva denunciato che fossero state rese pubbliche delle informazioni riservate alla banche, che fossero stati fatti scarsi controlli sul sistema finanziario, che fossero state esercitate delle «pressioni sul cambio per arrivare a una svalutazione del peso» e che «alcuni settori dell’economia» volessero «colpire il governo, magari con aiuti stranieri». Queste parole (condivise anche dal ministro dell’Economia Axel Kicillof) erano implicitamente rivolte a Fábrega. Per capirle bisogna però riassumere brevemente la situazione in cui si trova l’Argentina dal punto di vista economico e finanziario.
Il default tecnico
Lo scorso 31 luglio, l’Argentina ha tecnicamente fatto default, cioè bancarotta. E questo a causa del mancato accordo del governo con i rappresentanti di due fondi di investimento statunitensi a cui, in base a una recente sentenza del giudice USA Thomas Griesa, deve versare 1,33 miliardi di dollari.
Questo risale al 2001, quando l’Argentina già dichiarò default su circa 100 miliardi di dollari di debito. In parole povere, disse che non era in grado di restituire ai possessori di titoli di stato i soldi che questi avevano investito sul paese. Per affrontare la crisi vennero avviate trattative per arrivare alla cosiddetta “ristrutturazione del debito”: nel 2005 e nel 2010 vennero emessi nuovi titoli di stato “scontati” – cioè con rendimenti inferiori e con scadenza più lunga, trentennale – offrendoli ai creditori. Pur di limitare le perdite, lo scambio fu accettato dal 92,4 per cento degli investitori, mentre il 7,6 per cento degli obbligazionisti rifiutò. Questi creditori “ribelli” ricorsero alla giustizia statunitense. Lo scorso mese la Corte suprema americana ha dato loro ragione, dicendo in pratica che i possessori di titoli di stato argentini che non avevano accettato la ristrutturazione del debito successiva al default del 2001 dovevano essere rimborsati al cento per cento. La cifra da pagare corrisponde appunto, a 1,33 miliardi di dollari.
Il fatto che l’Argentina si sia rifiutata di rimborsare questi fondi le ha impedito anche di effettuare i pagamenti sul debito ristrutturato, quelli “ridotti”. Lo scorso 26 giugno l’Argentina aveva depositato più di 800 milioni di dollari per pagare chi aveva accettato lo scambio, ma il giudice della Corte Suprema aveva «ordinato alla Banca di New York e alle società di servizi di compensazione di non pagare». Negli ultimi giorni l’Argentina è stata condannata da Thomas Griesa per “oltraggio alla corte” dopo che il Parlamento argentino aveva approvato in via definitiva una misura per consentire di rimborsare i detentori dei titoli che avevano accettato la ristrutturazione (contro dunque la prima sentenza). Insomma, il contenzioso prosegue. Nel frattempo, la situazione è peggiorata e la moneta ha subito diverse svalutazioni rispetto al dollaro. È a questo punto della storia che si inseriscono la Banca centrale argentina, Fábrega e i dissensi con il governo di Kirchner.
La Banca centrale argentina
La Banca centrale argentina guidata da Fábrega ha scelto di reagire aumentando i tassi di interesse e limitando l’emissione di moneta per fare fronte all’inflazione (cioè a una diminuzione del valore reale del denaro: un euro, o un peso in questo caso, non è più sufficiente ad acquistare un chilo di pane, come era un anno prima). Secondo le rilevazioni private di diversi istituti di ricerca indipendenti l’inflazione è al 40 per cento, mentre secondo i dati ufficiali è al 30. Kirchner e il ministro Kicillof non erano d’accordo con queste scelte della Banca centrale. Anzi, Kirchner e Kocillof hanno confermato che ora la priorità è quella di sostenere i consumi: tra un anno si svolgeranno le elezioni presidenziali e, secondo diversi commentatori, la strada intrapresa per affrontare la crisi ha l’obiettivo, demagogico, di non far perdere consensi al partito di governo. Mario Seminerio, analista finanziario che sul suo blog ha pubblicato una raccolta di articoli sugli sviluppi dell’economia argentina negli ultimi anni, ha riassunto così la situazione:
«Il governo argentino ha deciso di rifiutare la realtà: anziché attuare politiche fiscali più restrittive e più in generale ristrutturare l’economia in senso di maggiore produttività, ha preferito mettere le mani sulla banca centrale, che ha perso la propria autonomia ed è stata dapprima razziata delle proprie riserve ed in seguito è stata costretta a stampare moneta per finanziare crescenti deficit pubblici. A questo punto, come ovvio e prevedibile, l’inflazione ha posto radici e si è sviluppata. Ma il governo, ancora una volta, ha negato la realtà ed ha iniziato ad alterare i dati di inflazione»
Il mercato del “dolàr blue”
A quel punto, per sfuggire all’inflazione – e al fatto che i salari non si adeguano con la stessa velocità – gli argentini hanno cercato di acquistare monete stabili, come il dollaro. Il vero problema è che però le riserve di dollari in mano alla Banca centrale argentina stanno scendendo molto rapidamente. Erano 52 miliardi nel 2011, mentre oggi sono a 28 miliardi e servono proprio per pagare i debiti denominati in dollari contratti dopo il default del 2001. Va anche segnalato che il prezzo della soia, principale fonte di esportazione del paese e fonte principale dell’entrata di dollari, è precipitato di quasi il 35 per cento negli ultimi tre mesi. Semplificando: i dollari sono sempre più rari e la prospettiva di un afflusso consistente è piuttosto lontana.
Per tutti questi motivi negli ultimi anni l’Argentina ha reagito creando un vero e proprio labirinto di norme per rendere sempre più difficile ai suoi cittadini procurarsi dollari, così da tutelare le proprie riserve di valuta pregiata (e per evitare la cosiddetta “fuga di capitali”: una delle ultime norme di questo tipo è stata la legge contro l’e-commerce). «Quando ci si trova in queste condizioni e si rifiuta di accettare la realtà (cioè adeguare il cambio), una delle prime cose che accadono è lo sviluppo di un fiorente mercato nero valutario, e così è avvenuto», dice ancora Seminerio.
Le forti restrizioni al cambio hanno infatti favorito un mercato parallelo, quello del cambio nero del dollaro, definito “blue” che nell’ultimo mese ha raggiunto dei valori record: il divario tra il cambio ufficiale dollaro/peso e quello “blue” è arrivato all’80 per cento. E questo significa che il cambio ufficiale è molto inferiore a quello del mercato nero e che il peso ufficiale vale molto poco. A gennaio (quando il governo argentino aveva permesso al peso di svalutarsi del 18 per cento, il calo più significativo dal default del 2001) Kirchner e Kocillof avevano annunciato che avrebbero impedito ulteriori svalutazioni e diminuito i controlli sul cambio di valuta – un’inversione di tendenza che però, avevano sostenuto molti commentatori, era arrivata troppo tardi.
Con un minor numero di dollari disponibili sul mercato, sono diminuite anche le importazioni. E secondo una recente ricerca la produzione industriale argentina è calata (nel mese di agosto 2014) del 9,7 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013; gli investimenti interni (sempre riferiti agli stessi periodi) sono diminuiti del 3,5 e sono aumentati i licenziamenti.
Foto: due persone davanti alla Borsa di Buenos Aires, 2 ottobre 2014 (STR/AFP/Getty Images)