La crisi del “Ne bis in idem”
Il principio giuridico per cui non si può essere processati due volte per la stessa cosa è messo in discussione dai progressi scientifici e dai processi mediatici, scrive Luigi Ferrarella
Nell’inserto domenicale del Corriere della Sera, Luigi Ferrarella – che si occupa abitualmente di cronaca giudiziaria e questioni di diritto – ha scritto del “ne bis in idem”, il principio che negli ordinamenti giuridici europei garantisce che non possa esserci per uno stesso fatto un nuovo procedimento penale nei confronti di un imputato – prosciolto o condannato – già giudicato in via definitiva. Insomma: che non si può essere processati due volte per lo stesso fatto.
Ferrarella ha scritto di quanto questo principio sia stato recentemente messo in crisi dai notevoli progressi in ambito scientifico e nelle tecniche investigative, e ha citato il numero crescente di casi giudiziari – presenti non soltanto nel cinema e nella letteratura – in cui nuove “verità storiche” rendono ancora più precaria, oggi, l’accettabilità sociale delle “verità processuali” di allora, e di quanto questa tendenza sia stata favorita dai “processi mediatici”.
Bei tempi quando i processi finivano in un «giudicato» davvero definitivo, e i casi di ne bis in idem, cioè il non poter più essere sottoposti a procedimento penale se già giudicati e assolti in via definitiva per quel medesimo fatto, parevano scolpiti nella pietra. Oggi, invece, il progredire delle tecniche di investigazione, specie di quelle a sempre più sofisticato contenuto scientifico, non soltanto mette a dura prova sedimentati convincimenti in tema di bioetica, ma tra le tante certezze che rimette in discussione comincia a far vacillare, se non la legittimità, quantomeno l’accettabilità sociale del principio che sottrae i cittadini a una possibilità altrimenti potenzialmente illimitata di essere penalmente perseguiti dallo Stato.
Evocato già nel diritto romano all’epoca delle legis actiones in auge fino al II secolo a.C. e tramandate dalle Institutiones del giurista Gaio nel II secolo d.C., il principio del ne bis in idem — benché presente già nel codice del Regno d’Italia nel 1865 — diversamente da altri Paesi non è inserito nella Costituzione italiana del 1947, ma a livello europeo è assunto dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali Ue di Nizza, dall’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen e dall’articolo 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel Codice di procedura penale è l’articolo 649 a prevedere che «l’imputato prosciolto o condannato, con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili, non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze». Solo che il principio, convenzionalmente accettato perché perlopiù vissuto appunto come riparo da una pretesa punitiva dello Stato altrimenti senza fine, sempre più spesso sta subendo i contraccolpi di verità «storiche» che, una volta disvelate dal progredire della tecnica d’indagine, lungi dal combaciare con le verità «processuali» vi si pongono invece in insanabile contrasto.
È di recente accaduto ad esempio a Napoli, dove, a quasi 40 anni di distanza dalla strage di moglie, marito e figlio massacrati (insieme al cagnolino di casa) la notte fra 30 e 31 ottobre 1975 nel loro appartamento di via Caravaggio a Fuorigrotta, il Dna estratto adesso da uno straccio da cucina e da un mozzicone di sigaretta (rimasti per decenni fra i reperti del Tribunale) è risultato appartenere al nipote della donna: cioè proprio all’imputato che oggi non può più essere processato perché, dopo un’iniziale condanna all’ergastolo in tribunale e un’assoluzione in Appello annullata però da un primo verdetto di Cassazione, nel 1985 venne definitivamente assolto e persino risarcito dallo Stato per i danni patiti durante la lunga detenzione preventiva, che l’aveva visto laurearsi in carcere e diventare avvocato penalista.
Casi clamorosi ma tutt’altro che rari, se si ricorda ad esempio la confessione-choc con la quale a Ferrara un ex marito, dopo essere stato condannato a 20 anni in primo grado e assolto in Appello e in Cassazione per l’uccisione della moglie ventisettenne morta nel 2006 dopo 14 mesi di coma per le botte ricevute, un giorno del 2009 si presentò agli allibiti piantoni di guardia alla questura e — certo di non rischiare ormai più di essere perseguito — confidò di essere stato davvero lui a ucciderla.
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Foto: Corte di Cassazione, Roma (AP Photo/Gregorio Borgia)