Che cos’è Hong Kong
La storia speciale della regione speciale della Cina, dal suo passato britannico a Bruce Lee, ora che se ne riparla per le grandi manifestazioni contro il governo cinese
Da tre giorni a Hong Kong ci sono grandi manifestazioni, con migliaia di persone che hanno occupato piazze e strade per chiedere libere elezioni al governo cinese. Ci sono stati scontri tra manifestanti e polizia locale con il ferimento di una quarantina di persone nel fine settimana, mentre gli agenti hanno fermato in tutto circa 150 persone. Lunedì le manifestazioni sono proseguite causando la chiusura di diverse banche, di uffici e delle scuole nelle aree centrali di Hong Kong, e si prevedono nuove grandi manifestazioni in settimana. Le proteste sono la conseguenza di anni di limitazioni democratiche nella regione speciale della Cina, che derivano da una storia molto complicata che risale ai tempi coloniali del diciannovesimo secolo.
Il periodo britannico
La Cina perse il controllo su Hong Kong in tempi relativamente recenti, dopo la prima Guerra dell’Oppio, che fu combattuta tra il 1839 e il 1842. In quegli anni il gigantesco impero cinese era devastato dalla corruzione e dal malgoverno, impoverito dopo secoli di ricchezza e pesantemente costretto tra le volontà di espansione militare e commerciale dei paesi europei, con in testa l’impero britannico. Il Trattato di Nanchino mise fine alla guerra: i britannici ottennero l’apertura al commercio di cinque porti della Cina, compreso quello di Shanghai, senza dovere più fare riferimento a intermediari per trattare con i mercanti cinesi. L’accordo prevedeva inoltre che Hong Kong, una piccola isoletta nel delta del fiume delle Perle, nella Cina meridionale, passasse sotto il controllo del Regno Unito.
Negli anni seguenti, grazie ad altri trattati di pace, la colonia britannica si espanse e nel 1898 la Cina cedette i Nuovi Territori: quasi mille chilometri quadrati di isole e terraferma. Si trattava però di un prestito della durata di 99 anni. A parte il periodo della Seconda guerra mondiale, Hong Kong rimase per decenni sotto il controllo del Regno Unito, instaurando una propria economia, molto più aperta al capitalismo rispetto a quella del sistema cinese.
La restituzione
Non è del tutto chiaro come si avviarono i colloqui tra il Regno Unito e la Cina per la restituzione di Hong Kong. Secondo alcuni storici, furono proprio le questioni di rinnovo di questo prestito a spingere l’allora governatore di Hong Kong Murray MacLehose, uno scozzese che era già stato ambasciatore a Pechino, a porre una domanda sul futuro di Hong Kong durante una visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese. La domanda fu posta, nel marzo 1979, direttamente al leader supremo Deng Xiaoping. Secondo alcuni, Deng fu colto impreparato dalla questione e espresse la necessità del ritorno di Hong Kong alla Cina, al termine del prestito.
Il problema doveva comunque essere risolto, per evitare incertezze nei contratti e negli accordi commerciali. Nel 1982 il governo di Margaret Thatcher mandò in Cina l’ex primo ministro Edward Heath, con l’incarico di avviare negoziati con la Cina su Hong Kong. Deng disse chiaramente che la questione doveva essere chiarita con negoziati ufficiali. La speranza del governo Thatcher era riuscire a mantenere il governo britannico sul territorio: ma la Cina rifiutò categoricamente questa opzione, non solo per i Nuovi Territori, ma anche per l’isola e per la penisola di Kowloon.
La Cina restò intransigente: disse di non riconoscere i trattati con cui gli altri due territori erano stati ceduti “in perpetuo”, definendoli “disonesti e disuguali”; aggiunse di riconoscere solo l’amministrazione britannica a Hong Kong ma non la sua sovranità.
Vista l’impossibilità di mediare, il primo ministro cinese e quello britannico firmarono insieme la Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica il 19 dicembre 1984, a Pechino. Con questa si stabiliva che tutti i territori di Hong Kong sarebbero tornati a far parte della Cina a partire dal primo luglio 1997, anche se la Cina si impegnava a non instaurare immediatamente il sistema socialista, lasciando invariato il sistema economico e politico della città per almeno 50 anni.
Con una grande cerimonia organizzata il primo luglio 1997, terminarono i 156 anni di dominio coloniale britannico di Hong Kong, che divenne la prima Regione Amministrativa Speciale della Cina. Erano presenti le massime autorità dei due stati: per la Cina era presente il presidente Jiang Zemin, mentre in rappresentanza della regina Elisabetta II era presente il principe Carlo, con il primo ministro Tony Blair e l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, il politico conservatore Chris Patten.
Come funziona Hong Kong oggi
Dal punto di vista amministrativo, Hong Kong è una delle due Regioni Amministrative Speciali della Cina. È una metropoli di quasi sette milioni di abitanti su un’area di 1.100 chilometri quadrati, il che fa della città una delle aree più densamente popolate al mondo.
Il sistema politico di Hong Kong non è una piena democrazia, ma è comunque molto più libero del rigido monopartitismo cinese. Molti partiti concorrono alle elezioni, ma il capo del governo di Hong Kong (formalmente il Capo dell’Esecutivo) è scelto dal ristretto numero di persone che compongono il Comitato Elettorale. Questo è formato da 1.200 persone, scelte con un meccanismo molto complesso che si basa principalmente sull’assegnazione di un certo numero di rappresentanti a ordini professionali e settori economici della società e sul quale interviene pesantemente il governo cinese. Questo sistema, e la ripartizione tra le varie sezioni, garantisce che i settori più vicini agli interessi cinesi siano sovrarappresentati.
Ma oltre al sistema elettorale, ci sono altre differenze notevoli. Il sistema giudiziario della “città-stato” è indipendente e si basa sulla common law, il principio del diritto consuetudinario tipico dei paesi anglosassoni. La Legge Fondamentale di Hong Kong, scritta dopo il passaggio delle consegne tra Regno Unito e Cina, stabilisce che la città avrà “un alto grado di autonomia” in tutti i campi eccetto le relazioni estere e la difesa.
Super capitalismo
Grazie alla sua distinzione amministrativa dal resto della Cina, Hong Kong nel periodo britannico e negli anni seguenti ha potuto sviluppare un’economia molto florida, caratterizzata da un capitalismo estremamente libero e dinamico. Il paese, considerato un paradiso fiscale, è da anni indicato come l’economia capitalista più libera al mondo dall’Index of Economic Freedom, classifica realizzata dal Wall Street Journal in collaborazione con la conservatrice Heritage Foundation degli Stati Uniti. La borsa di Hong Kong è la settima per grandezza al mondo e molte società negli ultimi anni hanno deciso di quotarsi nei suoi listini, contribuendo al suo successo e alla sua crescita.
Come si vive a Hong Kong
Hong Kong è densamente abitata, soprattutto nell’area della sua metropoli, ma ci sono grandi parchi e riserve naturali, la cui esistenza è in parte dovuta alla conformazione del territorio, collinare e in alcuni punti con rilievi piuttosto scoscesi dove è difficile costruire nuovi edifici. La montagna più alta, il Tai Mo Shan, supera di poco i 950 metri di altitudine.
Il clima è subtropicale senza la presenza di una stagione secca e con livelli di umidità che raggiungono picchi piuttosto alti. Per tipologia è simile al clima che si ha nella Pianura padana in Italia, seppure con inverni più miti e raramente sotto zero. Queste condizioni e l’alta densità abitativa contribuiscono al problema dell’inquinamento dell’aria, che in alcuni periodi dell’anno è praticamente irrespirabile. Le cose sono migliorate negli ultimi anni grazie a politiche ambientali più rigide, e all’utilizzo di tecnologie che permettono di ridurre le emissioni.
Il sistema dei trasporti pubblici di Hong Kong è probabilmente uno dei migliori al mondo. Si stima che il 90 per cento degli spostamenti giornalieri, circa 11 milioni, siano effettuati attraverso i trasporti pubblici. Il sistema su rotaia è integrato tra trasporto locale e metropolitano, con una rete di oltre 150 stazioni nelle quali transitano ogni giorno 3,5 milioni di persone. A queste si aggiungono oltre 700 linee di autobus e i trasporti via traghetto.
Popolazione e cultura
Degli oltre 7 milioni di persone che vivono a Hong Kong, circa il 94 per cento degli abitanti è di origini cinesi; il restante 6 per cento è composto da persone provenienti da diverse parti del mondo, a partire da altri paesi orientali come Vietnam e Nepal, e naturalmente da britannici. L’aspettativa di vita è di 79 anni per gli uomini e di 85 anni per le donne, tra le più alte al mondo. I cinesi della Cina continentale non hanno il diritto di risiedere a Hong Kong e non possono nemmeno muoversi liberamente entro i suoi confini. Per farlo devono ottenere un particolare permesso, paragonabile a un visto. I flussi di cinesi continentali sono calmierati, ma costanti, e riguardano annualmente circa 45mila persone, che contribuiscono al progressivo aumento della popolazione.
Dal punto di vista culturale, Hong Kong è diventata un interessante misto tra Oriente e Occidente, in seguito al suo lungo periodo come colonia britannica. Le rispettive tradizioni non si sono prettamente mescolate, ma si sono comunque sfumate a vicenda. Per strada piccoli ristoranti tradizionali si alternano a fast food delle più grandi multinazionali internazionali, e qualcosa di analogo avviene per musica e film. A Hong Kong tra gli anni Sessanta e i Settanta è nato il genere dei film sulle arti marziali, che ha reso famosi in tutto il mondo attori come Bruce Lee e Jackie Chan. Le televisioni via cavo offrono cataloghi con numerosi film e serie tv occidentali, prodotte soprattutto negli Stati Uniti.
Nel 2005 è stato inaugurato l’Hong Kong Disneyland, il primo parco divertimenti Disney in Cina, di proprietà per metà della società statunitense e per metà dello stesso governo di Hong Kong.
Crisi e gabbie
Negli ultimi anni però la crisi finanziaria e alcune decisioni del governo locale hanno determinato un sensibile impoverimento dei suoi cittadini. Il settore immobiliare ha patito più di altri le conseguenze della crisi, con un aumento significativo dei prezzi delle case. Molte persone sono state costrette a trasferirsi in appartamenti più piccoli o più vecchi o anche in fabbriche dismesse, aggravando un fenomeno che comunque esisteva già da decenni. Tra le sistemazioni più impressionanti ci sono alcuni appartamenti fatiscenti nel quartiere operaio di West Kowloon, nel distretto di Yuam Tsim Mong, allestiti con delle gabbie di rete metallica di circa 1,5 metri quadrati posizionate una sopra all’altra. Ogni appartamento arriva a contenere anche 20 gabbie, che hanno costi diversi a seconda della loro posizione. Quelle appoggiate a terra sono solitamente le più costose, perché ci si può quasi stare in piedi.
Le proteste
Le migliaia di manifestanti che in questi giorni stanno occupando le strade di Hong Kong chiedono maggiori aperture democratiche e autonomie, con il superamento delle pesanti influenze da parte del governo centrale cinese per quanto riguarda l’elezione dei suoi amministratori locali. Chiedono inoltre che l’attuale governatore Leung Chun-ying, ritenuto troppo vicino al governo centrale, si dimetta. Le elezioni sono previste per il prossimo 2017, ma secondo i manifestanti i meccanismi di selezione dei candidati che lasciano piena discrezionalità al governo cinese non permetteranno di eleggere democraticamente i loro rappresentanti.
Lo scorso giugno il movimento locale Occupy Central aveva organizzato un referendum, non ufficiale, per chiedere elezioni libere. Ora è la principale organizzazione che coordina le proteste, che si sono estese a parti più ampie della popolazione, che guardano con curiosità alle iniziative del movimento e alla possibilità del cambiamento. Anche se ci sono stati alcuni scontri, nel complesso le manifestazioni sono pacifiche e la polizia locale non ha usato più di tanto la forza. A Hong Kong è presente una guarnigione dell’Esercito popolare di liberazione che conta circa 6mila soldati e ha sostanzialmente incarichi di difesa dell’isola. Nel fine settimana sono circolate voci circa un suo possibile coinvolgimento per reprimere le proteste, condizione smentita dal governo centrale e da quello locale. Il governo di Pechino ha infatti ripetuto più volte di confidare nel governatore per risolvere la situazione, senza violenze.