La cosiddetta “trattativa”
Una guida minima al discusso e controverso processo al quale è stato chiamato a testimoniare anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano
Venerdì 26 settembre la Corte d’Assise di Palermo ha stabilito che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dovrà deporre come testimone nel processo sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. Il capo dello stato riceverà la corte e gli avvocati del processo in un’udienza a porte chiuse al Quirinale, come previsto dall’articolo 205 del codice di procedura penale. Il processo per la “trattativa Stato-mafia” dura da tempo, è piuttosto complicato e controverso ed è stato al centro di molte discussioni.
La cosiddetta “trattativa”
Contesto: inizio degli anni Novanta. Gli anni dell’omicidio del parlamentare siciliano della DC Salvo Lima (12 marzo 1992) e dell’imprenditore Ignazio Salvo (17 settembre 1992), delle stragi di Capaci (23 maggio 1992) e di via D’Amelio (19 luglio 1992) contro i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, delle bombe in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993) e in via Palestro (27 luglio 1993) a Milano, delle autobombe esplose a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro, a Roma, e del fallito attentato contro il giornalista Maurizio Costanzo (14 maggio 1993). C’è la sentenza della Cassazione del gennaio 1992 nel cosiddetto Maxiprocesso, che condannava Totò Riina e molti altri capi mafiosi all’ergastolo, e c’è l’applicazione dell’articolo 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario che prevede carcere duro e isolamento per i detenuti accusati di appartenere a organizzazioni criminali.
L’ipotesi odierna dei magistrati della procura di Palermo responsabili delle inchieste sulla presunta “trattativa Stato-mafia” – a partire dalle dichiarazioni di alcuni mafiosi – è che dopo gli anni 1992 e 1993 lo Stato abbia cercato di raggiungere con Cosa Nostra un accordo che avrebbe previsto la fine della stagione stragista in cambio di un’attenuazione delle misure detentive previste dall’articolo 41 bis. Scrive La Stampa:
A detta dell’accusa, la trattativa prosegue anche oltre l’arresto di Totò Riina nel ’93, e vive uno dei suoi momenti più drammatici col fallito attentato dello stadio Olimpico nel novembre dello stesso anno (per cui verranno arrestati i fratelli Graviano). In quel periodo, la mancata proroga di circa 300 regimi di 41 bis a detenuti mafiosi (ma non a personaggi di spicco) rappresenterebbe una prova del cedimento da parte dello Stato. Stesso discorso per la fuga di Provenzano nel ’95.
Qui La Stampa fa riferimento a un episodio ben preciso: secondo alcuni pentiti – e secondo il controverso e discusso testimone Massimo Ciancimino – nel 1995 il boss Luigi Ilardo avrebbe rivelato a un colonnello dei ROS di aver incontrato Provenzano in un casolare nei pressi di Mezzojuso, in provincia di Palermo, ma il generale Mario Mori, comandante dei ROS, non fornì uomini e mezzi adeguati per intervenire. L’anno dopo Ilardo venne ucciso poco dopo aver iniziato la sua collaborazione con la giustizia: Mori venne accusato di aver favorito Cosa Nostra nel mancato arresto, per questo fu processato e poi assolto in primo grado. Oggi è circolata la notizia che la procura generale di Palermo, all’apertura del processo d’appello per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, ha chiesto la riapertura dell’istruzione dibattimentale e l’acquisizione di numerosi documenti perché al tempo del primo processo non si era a conoscenza di «alcuni fatti accertati solo successivamente».
Gli imputati e il processo
Dopo l’apertura nel 1998 di un’inchiesta a Firenze, le indagini furono trasferite alle procure di Caltanissetta e Palermo. Il processo sulla presunta “trattativa” è di competenza di Palermo, mentre Caltanissetta indaga sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. La prima udienza del processo si è tenuta a Palermo il 27 maggio del 2013. Attualmente il processo si trova alla fase dibattimentale: si stanno esaminando le testimonianze dei pentiti e la prossima udienza si svolgerà il 2 ottobre. Per arrivare a una sentenza ci vorranno almeno due anni, precisa La Stampa.
Tra gli imputati iniziali del processo ci sono diversi boss mafiosi (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Antonino Cinà e Leoluca Bagarella), gli ufficiali delle forze dell’ordine Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e alcuni politici: l’ex ministro dell’Interno tra il 1992 e il 1994 Nicola Mancino, che è stato anche vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura tra il 2006 e il 2010, Calogero Mannino, ex ministro democristiano e Marcello Dell’Utri, ex senatore del PdL.
Tranne Mancino, accusato di falsa testimonianza, per gli altri le accuse sono violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. La posizione di Bernardo Provenzano è stata stralciata perché, secondo i periti, l’uomo non era in grado di partecipare coscientemente al processo. L’ex ministro Calogero Mannino ha chiesto e ottenuto di essere processato a parte con rito abbreviato: il suo processo inizierà il prossimo 15 ottobre.
A questi nomi si devono aggiungere quelli del pentito Giovanni Brusca e di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, che oltre che testimone è anche imputato: è accusato di concorso in associazione mafiosa e calunnia. La tesi dell’accusa si basa in gran parte sulle loro dichiarazioni. Brusca fu il primo a parlare del cosiddetto “papello” – un documento poi consegnato da Ciancimino e che conterrebbe dodici richieste avanzate allo Stato da Cosa Nostra, tra cui la revisione della sentenza del maxi-processo e l’annullamento dell’articolo 41 bis – e fu il primo a indicare il ministro Mancino come termine ultimo degli accordi.
In questi anni più volte sono stati espressi dubbi sul fatto che esistano prove dell’esistenza di questa “trattativa” che vadano oltre le dichiarazioni rese molti anni dopo da ex mafiosi e personaggi come minimo di dubbia affidabilità, come Massimo Ciancimino. Il titolare del procedimento dall’origine delle indagini e fino al deposito della memoria conclusiva è stato Antonio Ingroia, che il 29 ottobre del 2012 ha tenuto la sua ultima udienza nel processo sulla trattativa decidendo prima di accettare un incarico per l’ONU in Guatemala e poi di tornare dopo due mesi in Italia per candidarsi, senza successo, alla presidenza del Consiglio con la coalizione politica Rivoluzione Civile. Ingroia oggi nel processo rappresenta come avvocato l’Associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, ammessa come parte civile. L’accusa è ora rappresentata in aula dai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
Mancino e Napolitano
Nicola Mancino, all’epoca dei fatti, era ministro dell’Interno. Tra il novembre del 2011 e il dicembre del 2012 ci furono diverse telefonate tra lui e Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di Napolitano, per cercare di far attivare il coordinamento dell’antimafia nazionale (diretta da Pietro Grasso, oggi presidente del Senato) sulle due procure di Palermo e Caltanissetta. Ci furono anche delle telefonate dirette fra Mancino e il presidente della Repubblica e questa questione portò all’inizio del 2013 a uno scontro istituzionale tra Napolitano e la procura di Palermo.
(La questione di Napolitano e Mancino)
Il problema era nato quando, intercettando l’ex ministro Mancino, la procura di Palermo intercettò anche Giorgio Napolitano: si pose quindi la questione se il presidente della Repubblica in carica potesse essere intercettato o se le sue comunicazioni dovessero essere eliminate subito, a prescindere dal contenuto. Ai primi di dicembre la Corte costituzionale aveva risolto la questione accogliendo il ricorso dello stesso Napolitano e ordinando la distruzione delle intercettazioni.
I magistrati di Palermo continuarono a insistere a causa di alcune frasi scritte dall’allora consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio – che è morto per un infarto alla fine di luglio 2012 – in una lettera del 18 giugno 2012. La lettera in questione è stata pubblicata dal Quirinale nel volume “La Giustizia. Interventi del Capo dello Stato e Presidente del CSM 2006-2012″ (da pagina 143, nel PDF). In un passaggio D’Ambrosio esprimeva il “timore” di “essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi, e ciò nel periodo fra il 1989 e il 1993″. Napolitano dovrebbe dunque riferire di quelle frasi. Lo scorso novembre il presidente della Repubblica aveva inviato una lettera al presidente della Corte nella quale diceva di non aver avuto «ragguagli» o «specificazioni» da D’Ambrosio e quindi di non avere «da riferire alcuna conoscenza utile al processo». Nonostante questo, la Corte ha deciso di dover raccogliere la testimonianza di Napolitano.