• Mondo
  • Mercoledì 24 settembre 2014

Le grandi riforme in Cina, raccontate

Storie di un viaggio tra il Guangdong e Pechino, per capire come riesce un libretto di poche decine di pagine a cambiare il futuro di un paese di oltre un miliardo di abitanti

di Elena Zacchetti – @elenazacchetti

BEIJING, CHINA - SEPTEMBER 18: A Chinese construction worker rests as he takes a break from work in the area around the Drum Tower on September 18, 2014 in central Beijing, China. The Drum tower was built in 1272. (Photo by Kevin Frayer/Getty Images)
BEIJING, CHINA - SEPTEMBER 18: A Chinese construction worker rests as he takes a break from work in the area around the Drum Tower on September 18, 2014 in central Beijing, China. The Drum tower was built in 1272. (Photo by Kevin Frayer/Getty Images)

Raccontare le riforme in Cina è una cosa complicata. Come sia possibile riuscire a cambiare un paese di oltre un miliardo di abitanti, così esteso da dover prendere l’aereo solo per spostarsi all’interno di una delle sue ventidue province (ventitré se si considera anche Taiwan), è qualcosa che affascina e incuriosisce da decenni studiosi e appassionati. Leggere le riforme cinesi è invece molto più semplice: quelle approvate lo scorso novembre dai vertici del Partito Comunista Cinese (PCC) sono contenute in un libretto rosso di poche decine di pagine. Poche decine di pagine per riformare e cambiare un paese che si estende per quasi dieci milioni di chilometri.

In Cina le riforme approvate lo scorso novembre sono considerate le più ambiziose dai tempi dell’ex presidente Deng Xiaoping, alla fine degli anni Settanta: valgono per tutte le province e per tutti i suoi abitanti. Per essere messe in pratica devono essere interpretate «in conformità con il pensiero politico del Partito Comunista Cinese» e con il pensiero dell’attuale presidente, Xi Jinping. Le distanze infinite cinesi, il libretto rosso del Partito e l’autorità indiscussa di Xi sono solo alcune delle cose che noi, una quindicina di giornalisti e accademici europei, abbiamo scoperto viaggiando in Cina a seguito del partito comunista. Abbiamo raccolto storie affascinanti e visitato esperimenti di riforme tra la provincia del Guangdong e Pechino, in un paese che sembra andare a mille ma con disciplina – e scoperto cose stupefacenti. Consapevoli di tutti i limiti che porta con sé un viaggio organizzato dal partito unico, naturalmente; ma anche che pure quei limiti erano una parte delle cose a cui avremmo assistito.

Dove prima si giocava a Mah Jong, ora si fanno volare i droni
Il centro finanziario di Pechino si trova a Xicheng, uno dei distretti più piccoli e più densamente popolati della capitale cinese. Fare un giro qui è un po’ come visitare la parte moderna di una qualsiasi capitale occidentale: ci sono la via della Finanza, la sede della banca nazionale – la Bank of China – e un quartiere rumoroso e frequentato dove i giovani pechinesi si trovano a bere birra la sera. Fino a vent’anni fa però Xicheng era tutta un’altra cosa. Dove oggi c’è la sede della National Equities Exchange and Quotations (NEEQ), il terzo indice di borsa cinese e il primo mercato di borsa del paese, prima c’erano solo templi e hutong, cioè i vicoli formati da file di tradizionali abitazioni a corte tipiche del centro di Pechino. Dove oggi si assiste alle cerimonie per le nuove quotazioni in borsa con molti formalismi e alcune bizzarrie, tipo gong di campane e planate di piccoli droni, prima si giocava a Mah Jong, il tradizionale gioco da tavolo cinese per quattro persone e con molte tessere da combinare tra loro.

Mah Jong, Pechino

A Xicheng, come negli altri tre distretti della Pechino antica inclusi nella “strada del secondo anello” (nel centro centro città, dove si trova anche piazza Tienanmen), le trasformazioni degli ultimi vent’anni sono state enormi. Nel novembre del 2013, durante la terza sessione del 18esimo Comitato centrale del PCC – l’organo che nomina le cariche più potenti della Cina, tra cui quella del Segretario generale – il presidente Xi Jinping ha annunciato il più ambizioso piano di riforme mai presentato in Cina dal 1978, anno passato alla storia per le rivoluzionarie riforme di Deng Xiaoping. Da circa dieci mesi i funzionari locali ai vari livelli provano a interpretare le indicazioni di Xi Jinping e a implementarle «ciascuno sulla base delle proprie possibilità». Come questo possa portare a dei risultati ha provato a spiegarcelo Wang Shaofeng, 44 anni, vicesegretario del Comitato del PCC di Xicheng e attuale capo del governo dello stesso distretto.

Shaofeng, ci ha detto una funzionaria del Partito che ci accompagnava, è un politico preparato e competente, «laureato con il massimo dei voti in una delle migliori università della Cina» che ha scelto di fare politica a livello locale anche se «avrebbe potuto fare qualsiasi cosa avesse voluto». Si presenta ben vestito, si esprime con poca gestualità ma in maniera piuttosto diretta, e risponde alle domande con la stessa pazienza che ha un docente universitario di fisica nucleare con i suoi studenti che hanno appena cominciato un corso avanzato. Ci mostra un libretto rosso di una trentina di pagine: quello, dice, è il libretto delle riforme. L’ultima versione approvata dal Comitato permanente dell’ufficio politico del PCC – l’organo più potente del PCC attualmente formato da nove persone – dopo lunghe e ripetute discussioni ai diversi livelli del partito che hanno coinvolto anche enti di vario tipo, come alcuni istituti di ricerca. Ci racconta Shaofeng:

«Nella prima versione che ci è arrivata di questo libretto, la prima bozza, non abbiamo trovato grandi novità rispetto al passato. Non ci è sembrato che contenesse cambiamenti significativi per noi funzionari locali. Poi, nelle versioni che sono state elaborate in seguito raccogliendo suggerimenti da varie parti, abbiamo cominciato a vedere molti cambiamenti, che riguardavano direttamente anche la popolazione»

In quelle trenta pagine, ci spiega Shaofeng, ci sono le riforme che valgono per tutta la Cina: per le province più povere e per quelle più ricche, per le città da un milione di abitanti e per i villaggi abitati da poche centinaia di persone. Trenta pagine per un paese da 1,3 miliardi di abitanti: una sintesi quanto meno sorprendente. Tutto il resto viene fatto dalle amministrazioni locali, specialmente con incontri di funzionari di pari livello che si confrontano e cercano di capire “cosa voleva dire” Xi Jinping con quella frase o con quell’altra espressione. Vengono scritti documenti che si occupano di mettere in ordine le idee sull’applicazione delle riforme. I distretti, le città e le province cinesi cominciano a sperimentare nuove soluzioni, oppure imitano esperienze riuscite da altre parti: così nascono centri per l’assistenza ai lavoratori e a categorie di “persone svantaggiate”, servizi di assistenza medica e zone studiate per rispettare criteri di sostenibilità ambientale. E con gli stessi meccanismi si mettono in moto enormi cambiamenti in altri campi della società cinese. È così anche per la cultura, come abbiamo potuto vedere e verificare in uno dei teatri più suggestivi di tutta Pechino: lo Star Theatre.

Il teatro che si è fatto da solo, più o meno, a Pechino
Lo Star Theatre si trova a meno di cinque minuti a piedi dalla centralissima fermata della metropolitana Xuanwumen, nel distretto di Xicheng. I lavori per la sua costruzione sono terminati nel 2009 grazie all’intraprendenza di Fan Xing, 42enne fondatore e ora presidente del teatro, e a un significativo appoggio del governo. Il complesso che ospita il teatro è molto bello, un misto tra architettura cinese tradizionale e centro culturale “all’occidentale”: comprende cinque sale piuttosto piccole usate per gli spettacoli, ma anche diversi bar e ristoranti. Lo Star Theatre è una via di mezzo tra i grandi teatri nazionali di proprietà statale – e finanziati dal governo – e i piccoli teatri privati che si limitano a offrire lo spazio a loro disposizione per ospitare spettacoli di compagnie esterne. È una specie di “villaggio della cultura”, come è stato poi soprannominato, e col passare degli anni ha cominciato a essere sempre più frequentato da pechinesi e turisti. Oggi lo Star Theatre ospita circa un migliaio di spettacoli all’anno, messi in scena sia dalla compagnia del teatro sia da altre compagnie cinese e straniere (soprattutto francesi).

teatro

È lo stesso Fan ad attribuire al governo locale di Xicheng e al PCC il merito più grande per il successo del suo progetto: «Non avremmo potuto fare nulla senza le riforme». Qui l’intervento del partito è stato decisivo fin dal principio: nel 2007, anno dell’inizio dei lavori di ristrutturazione, il complesso dove oggi sorge lo Star Theatre era conteso da diverse altre imprese private, ma il governo locale di Xicheng ha deciso di sostenere il progetto di Fan Xing. Fino a quel momento Fan aveva avuto una lunga esperienza in produzioni per la televisione, anche se era un grande appassionato di teatro fin dalla sua adolescenza: «Sono cresciuto con i libri scritti da Shakespeare e Chekhov», ha detto al China Daily nel luglio del 2011. L’interessamento del governo per un progetto di questo tipo – privato e fuori dal circuito dei tradizionali teatri statali – ha sorpreso in parte anche Fan e coloro che con lui hanno ideato lo Star Theatre.

Non si è trattato comunque del primo esperimento di questo tipo: già dal dicembre 2005 il Comitato centrale del PCC aveva pubblicato una serie di documenti che rivedevano l’intero sistema culturale cinese, spingendo molte imprese culturali statali a ragionare in termini di mercato, concorrenza e capitale. Dal 2008 i quotidiani nazionali Guangming Daily ed Economic Daily avevano cominciato a pubblicare annualmente una lista delle trenta migliori imprese culturali del paese, comprese quelle private. Tre anni dopo, il 17esimo Comitato centrale del PCC aveva varato una serie di linee guida per sviluppare ancora di più l’industria culturale cinese. Meng Pan, vicedirettore dell’Ufficio culturale e dell’industria creativa del distretto di Xicheng, ci ha detto che oggi a Xicheng ci sono circa 7.500 imprese che si occupano di cultura, di cui molte private: un numero altissimo, raggiunto anche grazie alla decisione del governo locale di abbassare alcune delle tasse su questo tipo di attività.

Il meccanismo usato per riformare la cultura è stato lo stesso che il PCC ha pensato per il sistema economico e sociale: il governo “si è disimpegnato”. Si è limitato a fornire infrastrutture e una cornice istituzionale favorevole, e ha delegato molte delle sue funzioni alle “organizzazioni sociali” – gruppi di volontari e organizzazioni non governative considerate “indipendenti” – che ci hanno messo lavoro e spesso molti soldi. «È questo il senso delle riforme», ci aveva spiegato Shaofeng durante il nostro incontro: un paese governato da un partito comunista, con un’economia di mercato ormai molto poco comunista e un governo che si disimpegna da certe attività culturali favorendo l’ascesa dei privati.

Se la tendenza a creare e garantire sempre più spazio all’industria culturale privata è stata quindi confermata, il tema della libertà di espressione rimane ancora molto controverso. La gestione dello Star Theatre, ci spiega Fan, dipende dalle indicazioni che arrivano ogni anno dai vertici del Partito Comunista sulla cultura: «Ogni anno leggiamo con attenzione il documento diffuso dal governo e cerchiamo di capirne l’orientamento, in modo poi da implementare quelle indicazioni» (che è un po’ lo stesso lavoro di interpretazione richiesto ai funzionari locali di fronte ad altro tipo di riforme). Per un’impresa che fa cultura avere l’appoggio del governo significa anche altro: nel caso dello Star Theatre, per esempio, significa ottenere prestiti a condizioni molto favorevoli e corsi pagati – anche all’estero – per i giovani talenti. Le controindicazioni riguardano soprattutto l’assenza di un vero dibattito sull’arte come strumento di condizionamento della società e come mezzo di critica del potere. Al termine del nostro incontro abbiamo chiesto a Fan di definire l’arte, in una parola: ha risposto «bellezza». Sulla sua portata contestatoria e rivoluzionaria, invece, ha opposto un silenzio imbarazzato – lì per lì a noi è sembrato onesto e ingenuo, insieme.

Nel profondo sud: il villaggio dell’ecommerce e l’Europa-che-è-nostra-amica
Nel villaggio di Junpu, nella parte orientale della provincia cinese del Guangdong, ci sono più negozi online che abitanti. Junpu è anche chiamato “il villaggio dell’e-commerce” e di recente è stato inserito dalla società cinese Alibaba nella lista dei dieci villaggi della Cina più profittevoli per Taobao, un importante sito cinese per lo shopping online simile a eBay e Amazon. Junpu si trova nella provincia meridionale del Guangdong, la più ricca di tutta la Cina, conosciuta per essere stata la prima a sperimentare le riforme di Deng Xiaoping all’inizio degli anni Ottanta: i lettori della stampa sportiva italiana hanno sentito parlare di Guangzhou, capitale del Guangdong, per la forte squadra locale allenata da Marcello Lippi e in cui giocano Alessandro Diamanti e da questa stagione anche Alberto Gilardino.

Arrivandoci da ovest, lungo la strada provinciale s335 che passa per Jieyang (la municipalità a cui appartiene anche Junpu), si vedono ancora ai lati della carreggiata diversi blocchi di case tradizionali tipiche delle comunità contadine: sono abitazioni allineate perfettamente una di fianco all’altra, separate da vicoli strettissimi spesso sterrati, e facilmente riconoscibili per il tetto spiovente e una specie di pennacchio in cima alla facciata. Alcuni di questi blocchi sono rimasti in piedi anche a Jieyang, e spuntano qua e là a fianco dei modernissimi palazzi e dei grattacieli che dominano l’attuale skyline della città.

skyline

Junpu ha una storia notevole, specialmente per capire in che modo il governo cinese è riuscito a fare arrivare le riforme anche in uno dei posti più periferici di una periferica – seppur ricca – provincia cinese. Nel 2012 l’allora 21enne Xu Zhuangbin decise di trasferire a Junpu, il suo villaggio di origine, l’attività di vendite online su Taobao che aveva sviluppato con successo a Guangzhou, mentre faceva l’operaio: gli affari gli andavano bene, ma Zhuangbin voleva tornare a vivere vicino alla famiglia. Quella fu la prima volta che Taobao fece la sua apparizione in questo piccolo e sconosciuto villaggio del Guangdong. E Zhuangbin fu il primo di moltissimi altri giovani che nei mesi successivi tornarono a Junpu per provare a far funzionare un’impresa di ecommerce. Il governo locale ci mise del suo per realizzare quello che poi divenne noto come il “villaggio di Taobao”. Come ci ha spiegato Zhang Shiyi, vicesindaco di Jieyang, il governo locale mise a disposizione una connessione a banda larga gratuita per i residenti; offrì stanze e magazzini per coloro che volevano aprire un’attività ed erano “nuovi” nel campo; contribuì a istituzionalizzare un sistema di prestiti bancari molto conveniente e favorì la diffusione di società che si occupavano di servizi finanziari di vario genere – come servizi di valutazione del credito e di consulenza per la stesura di business plan. In pratica il governo locale ha creato un ambiente favorevole alla nascita di un sistema che, da un certo punto in poi, ha cominciato ad alimentare la sua stessa espansione.

A una quarantina di chilometri a sud-ovest di Jieyang c’è il cosiddetto “China International Clothing Puning”, il più grande mercato di vestiti di tutta la provincia del Guangdong. Il “China International Clothing Puning” si trova nella città di Puning, circa 2,5 milioni di abitanti, ed è una specie di super-centro commerciale formato da diversi edifici in cui si può trovare un po’ di tutto: è formato da circa 4000 negozi, tutti gestiti da società private, ed è considerato uno degli esperimenti commerciali meglio riusciti di tutta la provincia. Qui è il mercato che comanda: «Il mercato stabilisce i prezzi dei prodotti. Le compagnie che vogliono spostarsi in altre città possono farlo senza alcuna restrizione», ci dice il vicepresidente del “China International Clothing Puning”, che di fatto è una piattaforma di servizi alle imprese. A girare tra gli edifici del centro, che è una specie di città nella città, sembra di stare in un altro mondo. Agli angoli delle vie si incontrano soldati in divisa sempre pronti a fare il saluto militare agli stranieri: tra i banchi dei vestiti si scoprono delle tendenze che fanno per lo meno sorridere gli occidentali, per esempio file di biancheria intima femminile che sembrano uscite da qualche esposizione di moda degli anni Cinquanta.

China International Clothing Puning

Anche qui il mercato è cresciuto molto rapidamente grazie a una serie di politiche governative dirette sia a formare la popolazione locale, che non aveva alcuna esperienza nel settore, sia a favorire i flussi migratori da altre province della Cina. Come ci spiega un funzionario di “China International Clothing Puning”, da qualche tempo la dirigenza sta cercando di concludere un accordo con la Francia per ottenere dei marchi “spendibili” sul mercato: in altre parole, vuole poter associare i prodotti che passano attraverso la sua piattaforma a dei marchi riconoscibili e vendibili anche all’estero – in particolare in Europa – in modo da espandere il mercato dell’abbigliamento dei venditori locali. Nella provincia del Guangdong la collaborazione con alcuni paesi europei – in particolare la Germania – ha contribuito alla creazione di progetti notevoli. Uno dei più importanti è la “Sino-German Metal Eco City”, una città che si estende su circa 25 chilometri quadrati sviluppata sull’idea della cosiddetta “economia circolare“, cioè un modello che pone al centro la sostenibilità del sistema, in cui non ci sono prodotti di scarto e in cui le materie “seconde” vengono costantemente riutilizzate. Il progetto è molto ambizioso – prevede tra le altre cose la costruzione di università, hotel, zone residenziali, decine di imprese sostenibili e un complesso sistema di riciclaggio dei rifiuti – e dovrebbe essere completato nel 2020. Darà lavoro a circa 100mila persone. Il progetto è finanziato dallo stato e da capitali privati stranieri e cinesi.

Il “China International Clothing Puning” e la “Sino-German Metal Eco City” sono l’incarnazione del sistema-di-mercato-con-caratteristiche-cinesi, cioè quel sistema che la Cina ha fatto proprio nel corso degli ultimi decenni. Si è consolidato attraverso un percorso di riforme economiche che va avanti dal 1978 e che ha subìto una spinta decisiva con l’inizio della presidenza di Xi Jinping. Nel novembre 2013 il terzo Plenum del 18esimo Comitato centrale del PCC ha approvato un documento che sintetizza in una cinquantina di pagine il senso delle riforme, e gli obiettivi che la Cina dovrebbe raggiungere entro il 2020. Nei punti II e III del documento – per dire la particolarità delle riforme cinesi – si tratta prima del ruolo delle imprese pubbliche e private nel “socialismo con caratteristiche cinesi”, poi della prevalenza del mercato sull’intervento dello Stato:

«Il sistema economico di base con le aziende statali al centro – unitamente allo sviluppo di altri sistemi di proprietà – è il maggior pilastro del Socialismo con le caratteristiche cinesi ed è la base del sistema economico di mercato socialista. L’economia pubblica e l’economia non-pubblica sono entrambe componenti importanti dell’economia di mercato socialista, e sono entrambe basi importanti dello sviluppo economico e sociale della Cina. […]

Tutti i prezzi che possono emergere dai mercati dovrebbero essere determinati dai mercati, e il governo non svolge alcuna interferenza impropria. Progredire con la riforma dei prezzi per acqua, petrolio, gas naturali, elettricità, traffico, telecomunicazioni e altre aree simili e rendere liberi i prezzi del mercato. L’attività del governo di condizionare i prezzi è limitata principalmente alle importanti forniture pubbliche, ai servizi di interesse pubblico ed alcuni tipi di monopoli, è trasparente e accetta una supervisione sociale»

«Una società armoniosa in un ambiente bellissimo»
«In poche parole, vogliamo raggiungere una società armoniosa in un ambiente bellissimo». Lo dice Chen Lyiping, segretario di partito a Jieyang, città della provincia meridionale cinese del Guangdong. Chen è un funzionario di governo non particolarmente importante a livello nazionale, ma ci accoglie nel più bel palazzo che abbiamo avuto modo di vedere a Jieyang. Si presenta in giacca e cravatta, un’abitudine non molto diffusa in Cina tra i funzionari di governo e di partito. Sembra un incontro importante: uno dei dirigenti del Partito Comunista Cinese (PCC) che fino a quel momento aveva indossato sandali di gomma e calzettoni grigi “alla tedesca” si mette per l’occasione abito e scarpe nere chiuse. Chen comincia un discorso piuttosto lungo e noioso sulla città di Jieyang – quanti abitanti ha, dove si trova, come è messa la sua economia, quali sono i progetti in ballo – interrompendosi di tanto in tanto per permettere alla nostra interprete di tradurre dal cinese all’inglese.

Jienyang

Chen ci spiega poco o niente della sua città e delle riforme che si stanno attuando a livello locale: ci dà invece l’idea di una “società armoniosa in un ambiente bellissimo”. Se avessimo sentito questa cosa da un qualsiasi politico occidentale, gli avremmo dato del matto. In realtà l’idea di “società armoniosa” non è un’invenzione di Chen: si inserisce nella bizzarra retorica che il Partito Comunista Cinese costruisce accanto agli obiettivi politici delle sue riforme. Un altro obiettivo, per esempio, è quello della “felicità”. Cose certamente non inedite – “Life, Liberty and the pursuit of Happiness” – ma che non si sentono altrettanto spesso dalla nostra parte del mondo.

La “società armoniosa” è l’obiettivo dichiarato dell’immenso processo di riforme cominciato in Cina alla fine degli anni Settanta. La sopravvivenza del Partito Comunista Cinese è la ragione profonda di queste riforme: il sistema del partito unico è il solo ambiente politico in cui queste riforme possono essere applicate. Il “miracolo economico cinese” – è stata così definita dalla stampa occidentale la stupefacente crescita economica della Cina degli ultimi 25 anni – è il risultato del “sistema di mercato con caratteristiche cinesi”, usa dire il Partito Comunista Cinese: non quello che siamo abituati a pensare come “comunismo”. Il suo inizio viene fatto risalire agli anni Novanta, quando l’economia subì una grande espansione grazie a estese politiche di privatizzazione e all’apertura del paese agli investimenti stranieri. Milioni di persone cominciarono a spostarsi dalle campagne alle città, dando progressivamente alla Cina l’aspetto che ha oggi: le città con oltre un milione di abitanti erano 34 nel 2000; 102 nel 2012; secondo alcune stime saranno 221 nel 2025.

Esperti, economisti, politologi e sinologi si occupano da decenni del “miracolo economico cinese”, indagandone le ragioni e le conseguenze, e sicuramente lo faranno ancora a lungo; girando un po’ la Cina, dai quartieri della capitale alle province più lontane, si scoprono una montagna di storie e si impara qualcosa. Su tutto si impara che quelle 30 pagine funzionano, seppure in un modo tutto loro.