Dieci canzoni di Leonard Cohen

Da riascoltare oggi: le ha scelte il peraltro direttore del Post nel suo libro "Playlist"

Il 21 settembre del 1934, ottant’anni fa, nacque Leonard Cohen, uno dei cantautori più celebri, influenti e stimati della storia della musica, oltre che poeta, scrittore e compositore. Qui ci sono dieci sue canzoni scelte da Luca Sofri, peraltro direttore del Post, nel libro Playlist, la musica è cambiata.

Leonard Cohen
(1934, Montreal, Canada)
Leonard Cohen ha sempre avuto quell’aria seria e severa, che ha contribuito alla costruzione del suo mito. Canadese, cantautore di culto pazzesco e di riferimento per tutta una generazione di allievi, anche italiani (soprattutto De Gregori e De André), ha fatto una decina di canzoni formidabili nel giro di pochi anni tra il 1967 e il 1971 e poi ha continuato a fare dischi eccellenti per quarant’anni, con quella sua voce seria e severa.

Suzanne
(Songs of Leonard Cohen, 1968)
Il classico dei classici di Leonard Cohen, la sua canzone perfetta. Suzanne era Suzanne Verdal, e Cohen la conobbe a Montreal. A giudicare da quel che dice la canzone, gli piacque parecchio. Nel 2006 un programma televisivo americano scoprì che lei viveva in un’automobile a Venice Beach in California: disse che con Cohen non c’era stato niente. E che una volta che si erano reincontrati, lui non l’aveva riconosciuta. Il tè con le arance di cui parla la canzone si chiama Constant Comment, se volete provarlo e avere una vera esperienza rock. Anni dopo, per coincidenza, Cohen ebbe due figli da un’altra Suzanne, che non c’entra con la canzone. L’hanno cantata in tantissimi, tra cui Fabrizio De André e Peter Gabriel.

So long, Marianne
(Songs of Leonard Cohen, 1968)
Cohen non volle né percussioni né batteria in tutto il disco, eppure in “So long Marianne” riuscì a creare un ritmo di chitarre che risalta sul tono più quieto del resto del disco. Anni prima aveva vissuto su un’isola greca, Idra, ritrovo cosmopolita di artisti e intellettuali, dove era arrivato nel 1960 e aveva comprato una casa. In un ambiente beato e fricchettone animato da una certa promiscuità sentimentale, si era messo a un certo punto con la moglie trascurata di un noto scrittore norvegese, di nome Marianne.

One of us cannot be wrong
(Songs of Leonard Cohen, 1968)
“One of us cannot be wrong” è l’ultima canzone (che da sola fa capire almeno un paio di dischi di De Gregori) del primo bellissimo LP di Leonard Cohen, una serie di aneddoti reali e surreali intorno alla storia di una relazione faticosa. Si chiude con una nenia ubriaca meravigliosa.

Bird on a wire
(Songs from a room, 1969)
“Come un uccello sul filo”. Non si tratta di una metafora generica: l’uccello è stato successivamente identificato. Cohen ha spiegato di averlo osservato sul filo delle linee telefoniche appena installate nell’isola di Idra. Una volta Kris Kristofferson ha detto che sulla sua tomba vuole sia scritto:”Like a bird on the wire, like a drunk in a midnight choir, I have tried in my way to be free”

Famous blue raincoat
(Songs of love and hate, 1971)
“And what can I tell you, my brother, my killer”. Stupenda, finedelmondo, da farsi malissimo. Lui, lei, e l’amico fedifrago: “quando lei tornò, non era di nessuno”. La canzone è una lettera delusa e risentita all’amico, (quello col famoso impermeabile blu), che si conclude con il famoso “Sincerely, L. Cohen”. Anni dopo Cohen ha raccontato di non essere mai stato del tutto soddisfatto del testo, e di non ricordare chi fossero i personaggi reali della storia.

Chelsea Hotel No. 2
(New skin for the old ceremony, 1974)
“I remember you were in the Chelsea Hotel”. Il Chelsea di New York è probabilmente l’albergo più noto alla storia del rock. Si trova sulla 23ma, tra la settima e l’ottava, e ha ospitato decine di artisti e scrittori, e moltissimi musicisti: ci hanno vissuto Patti Smith, Bob Dylan, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Edith Piaf e Leonard Cohen, che mise in una canzone la sua storia con Janis Joplin (“mi dicesti che preferivi gli uomini belli, ma per me avresti fatto un’eccezione”). Si erano incontrati in un ascensore del Chelsea e lei stava cercando Kris Kristofferson. Cohen le disse “sono io”, e stando al suo stesso racconto lei rispose “ti facevo più alto”. Nella canzone lui riferisce dettagli un po’ clintoniani della loro relazione, della cui rivelazione si è rammaricato in seguito. Altre canzoni sul Chelsea appartengono a Joni Mitchell, ai Jefferson Airplane, a Nico, a Keren Ann, a Ryan Adams.

First we take Manhattan
(I’m your man, 1988)
La canzone più famosa del tardo Cohen, convertitosi a un’improbabile arrangiamento elettronico, ospita la minaccia “prima prendiamo Manhattan, e poi passiamo a Berlino”. Una riflessione sul fascino delle posizioni estremiste e drastiche. Tra i fans dichiarati del disco c’è l’artista scozzese Jack Vettriano.

The future
(The future, 1992)
Cori a metà tra il gospel e i Pink Floyd di The wall, e il racconto apocalittico di un futuro terribile e criminale: “quando dissero ‘pentiti, pentiti’, mi chiedo cosa volessero dire”. Fu usata nella colonna sonora di Natural born killers.

Go no more a-roving
(Dear Heather, 2004)
Questa pare una vecchia canzone di Van Morrison. Invece il testo è una poesia di Lord Byron.

On that day
(Dear Heather, 2004)
Sull’11 settembre, netto e definitivo, in risposta alle fesserie che si sentivano in giro: “Qualcuno dice che ce lo siamo meritati, per i nostri peccati contro Dio, o i crimini contro l’umanità. Non so, io mi limito a tenere duro, dal giorno in cui ferirono New York. Qualcuno dice che ci odiano da sempre, per le nostre donne svelate, per i nostri schiavi e il nostro oro. Non so, io mi limito a tenere duro. Ma voi ditemi una cosa, e io non vi giudicherò: siete impazziti o vi siete arruolati, quel giorno? Quel giorno che ferirono New York?”.