Che fine fanno le imprese sequestrate alla mafia?
Spesso falliscono, racconta Luigi Dell'Olio su Repubblica, a causa della burocrazia e del fatto che non sono fatte per stare su un mercato competitivo
Il giornalista Luigi Dell’Olio ha raccontato sul sito Repubblica cosa succede alle aziende sequestrate dallo stato alla criminalità organizzata. Secondo Dell’Olio, che utilizza i dati di Banca d’Italia e Transcrime – un centro studi dell’Università Cattolica di Milano e dell’Università di Trento – circa l’85 per cento delle aziende sequestrate fallisce. Le cause sono soprattuto i problemi e le lungaggini burocratiche legate ai procedimenti di sequestro, ma anche il fatto che spesso si tratta di aziende che possono sopravvivere soltanto in un mercato non competitivo.
Ce ne eravamo occupati due anni fa, Don Ciotti aveva lanciato l’allarme: “Così vincono loro”. Ma niente da allora si è mosso, anzi, se possibile, le cose sono peggiorate. Uno dei casi più recenti ha riguardato il gruppo 6Gdo di Castelvetrano, sequestrato nel 2007 a Giuseppe Grigoli (provvedimento confermato nel 2013), ritenuto il cassiere del capomafia Matteo Messina Denaro. Dopo la confisca e ripetuti tentativi di rilancio, a fine maggio la società è stata dichiarata fallita dal Tribunale di Marsala. Così, adesso, i 250 dipendenti del gruppo sono oggetto di licenziamento collettivo da parte della Anbsc, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. E le cose vanno ancora peggio al personale dell’indotto, privo di qualsiasi tutela.
La legge 109 del 1996 per il riutilizzo dei beni sequestrati alla criminalità organizzata ha compiuto da poco 18 anni e il bilancio fa emergere diverse zone d’ombra. La normativa ha consentito alla Stato di riprendersi migliaia di beni tra palazzi, appartamenti, terreni e aziende. Ma sulle aziende i risultati sono stati al di sotto delle aspettative: quasi il 90% delle imprese confiscate ha chiuso i battenti. Le vittime principali di questo sistema sono i lavoratori, costretti a fare i conti prima con il boicottaggio dei vecchi proprietari durante la fase del sequestro, poi con le lungaggini della giustizia e un rimpallo di competenze che durano anni e lasciano andare in malora le strutture e gli impianti. Anche chi prova a costituire una cooperativa per rilevare l’attività d’impresa, spesso impegnando il proprio Tfr, si scontra con un muro di gomma e lo sbocco è quasi sempre la liquidazione della società.
Un meccanismo che genera sfiducia verso le istituzioni e porta molti a rimpiangere le vecchie gestioni, “che, quanto meno, lo stipendio a fine mese lo garantivano”. Perché nelle terre martoriate dalla criminalità organizzata, a maggior ragione in periodi di crisi come questo, è quasi impossibile trovare un’altra occupazione che possa garantire un’esistenza dignitosa. Si salva solo il 15% delle aziende. Transcrime, centro di ricerca che fa capo alla Cattolica di Milano e all’Università di Trento, ha analizzato la situazione delle aziende confiscate dal 1983 a oggi. Lo studio ha guardato sia il periodo prima del sequestro, quando ancora le imprese erano gestite dalle mafie, sia lo stato attuale di queste aziende. I ricercatori ne hanno ricavato stime (per la presenza di informazioni spesso frammentarie) impietose: il 65-70% delle imprese è in liquidazione, il 15-20% è fallita, mentre ne restano attive il 15-20%. Dati che si rivelano sostanzialmente omogenei per settori economici e territori di attività.
Occorre, dunque, prendere atto del fallimento? Per Michele Riccardi, docente alla Cattolica e tra gli autori dello studio, le ragioni sono essenzialmente due: “In molti casi le aziende mafiose non sono intrinsecamente competitive e quindi, una volta riportate sul mercato legale, faticano a sopravvivere”. Dallo studio emerge che spesso queste imprese non nascono con finalità imprenditoriali (massimizzare il profitto), ma per utilità criminali (riciclare denaro, controllare il territorio). Se restano sul mercato è solo grazie a mezzi illegali, dalla corruzione alle frodi negli appalti e contabili, dalle intimidazioni ai danni della concorrenza all’impiego di lavoratori in nero e materiali di scarsa qualità. Inoltre si tratta di realtà spesso piccole (nel 50% dei casi hanno un capitale medio tra 10 e 20 mila euro, per lo più Società a responsabilità limitata, Srl), giovani (in media dieci anni tra la costituzione e la confisca di prima istanza, ancora meno prendendo il sequestro), attive in settori a forte concorrenza (costruzioni, commercio al dettaglio, ristoranti e bar rappresentano circa il 60% di tutte le aziende confiscate) e in territori a basso sviluppo.