Il coprifuoco per ebola in Sierra Leone
È iniziato ieri e durerà tre giorni: è la campagna governativa più aggressiva e ambiziosa finora decisa in Africa Occidentale contro l'epidemia
Venerdì 19 settembre è cominciato in Sierra Leone un coprifuoco deciso del governo per limitare l’epidemia di ebola: per tre giorni tutti gli abitanti del paese dovranno rimanere in casa e le attività commerciali rimarranno chiuse. Venerdì le strade di Freetown, la capitale della Sierra Leone, sono rimaste completamente deserte, ad eccezione dei soldati presenti ai posti di blocco sulle vie principali di comunicazione. Si tratta della campagna governativa più aggressiva e ambiziosa finora approvata in Africa Occidentale contro l’ebola, ha scritto il New York Times.
Il presidente della Sierra Leone, Ernest Bai Koroma, ha detto alla popolazione di prestare attenzione alle misure di emergenza comunicate dagli operatori sanitari e dai circa 30mila volontari che da giorni vanno casa per casa a controllare le condizioni di salute dei residenti. «Alcune delle cose che stiamo chiedendo alla nostra popolazione sono difficili, ma la vita è più importante di queste difficoltà», ha detto giovedì Koroma in un messaggio radio rivolto a tutto il paese. Il governo della Sierra Leone aveva annunciato il coprifuoco venerdì 5 settembre, definendola una misura drastica ma necessaria per limitare un ulteriore aumento del numero di persone uccise dall’epidemia.
Anche Guinea e Liberia – gli altri due paesi dell’Africa Occidentale duramente colpiti da ebola – hanno adottato un coprifuoco per limitare la diffusione di ebola. Le misure in questi due paesi, tuttavia, sono state applicate solo a porzioni di territorio e non hanno avuto la stessa intensità di quelle decise dal governo della Sierra Leone. Qui la campagna contro l’ebola non ha portato finora a risultati significativi. I limiti delle iniziative governative sono stati evidenti soprattutto rispetto all’incapacità delle strutture sanitarie del paese di accogliere e curare i malati di ebola. A Freetown, per esempio, non esiste un centro sanitario attrezzato in grado di occuparsi su larga scala delle persone infette: molti pazienti sono costretti a rimanere in centri temporanei fino a che non si liberano delle ambulanze che li trasportano in strutture sanitarie lontane anche diverse ore di viaggio. Queste stesse strutture spesso sono sovraffollate, e il personale medico è carente.
Adam Nossiter, giornalista del New York Times, ha descritto una scena drammatica a cui ha assistito venerdì a Freetown. Una donna è rimasta per ore rannicchiata in posizione fetale, con gli occhi chiusi, al lato di una strada della città. I volontari anti-ebola che si trovavano lì sono rimasti a distanza di sicurezza, spiegando a Nossiter che la donna aveva la febbre molto alta e che, nonostante diverse chiamate agli ospedali, nessuna ambulanza era ancora arrivata. Gli operatori sanitari sono arrivati dopo cinque ore, ma si sono rifiutati di portare via la donna: non erano attrezzati e quello non era il loro lavoro, hanno detto ai volontari presenti.
L’inviato delle Nazioni Unite che si occupa dell’epidemia di ebola, David Nabarro, ha detto che il divario tra la diffusione della malattia e l’abilità di combatterla è diventato enorme, e che l’unica soluzione è che tutto il mondo investa più risorse nei paesi colpiti. Per affrontare l’emergenza, ha aggiunto Nabarro, è necessario poter curare 9-10mila persone alla volta: per farlo, «abbiamo bisogno di altre persone e altro denaro, ma anche di un’organizzazione e una logistica che non è seconda a nessun’altra». Un parere simile è stato espresso da Michael Goldfarb, portavoce di Medici Senza Frontiere: «Senza una risposta immediata, massiccia ed effettiva, potrebbe esserci anche a Freetown un’esplosione di casi di ebola simile a quella che abbiamo visto a Monrovia [la capitale della Liberia]».