E ora che succede al Regno Unito?
Dopo la vittoria dei "no" al referendum scozzese rimangono irrisolte diverse questioni istituzionali: per esempio, che conseguenze ci saranno per Galles e Irlanda del Nord?
Dopo la vittoria dei “no” al referendum sull’indipendenza della Scozia tenuto giovedì 18 settembre, la stampa britannica ha cominciato a occuparsi diffusamente di quello che sarà il futuro del Regno Unito, e che tipo di conseguenze il referendum provocherà sugli equilibri politici interni del paese. Gli scozzesi si sono mostrati molto divisi – il “no” ha vinto con il 55,30 per cento dei voti – e il primo ministro scozzese Alex Salmond ha annunciato venerdì 19 settembre che si dimetterà a novembre per permettere l’elezione di un nuovo leader del partito di maggioranza, lo Scottish National Party, di cui Salmond è attualmente a capo. C’è poi la questione delle promesse fatte dal primo ministro britannico David Cameron, che prima del referendum ha assicurato che il governo di Londra concederà ulteriore autonomia alle nazioni del Regno Unito.
Le riforme costituzionali
In un discorso tenuto poco dopo la diffusione dei risultati definitivi, il primo ministro britannico David Cameron ha detto che il voto del referendum non è contestabile e mette di fatto da parte la questione sull’indipendenza “per una generazione”. Nelle ultime settimane, e per timore di una vittoria dei “sì”, il governo britannico ha promesso delle riforme costituzionali per assicurare in ogni caso maggiori autonomie al parlamento scozzese. Cameron ha detto di essere intenzionato a dare alla Scozia nuovi poteri decisionali in merito alle questioni relative alle tasse, alla spesa pubblica e alle politiche di welfare: questi provvedimenti e queste modifiche, ha aggiunto, riguarderanno “chiunque in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord”.
Nei giorni scorsi sulla necessità e sul tipo di riforme si erano trovati d’accordo i tre principali partiti del Regno Unito – conservatori, liberaldemocratici e laburisti – che avevano sottoscritto un documento condiviso: in caso di vittoria del “no”, i tre partiti promettevano il passaggio di una parte dei poteri al parlamento scozzese e maggiori autonomie per quanto riguarda la gestione della spesa a partire dal 19 settembre. Una bozza della riforma, dopo alcune rapide consultazioni, dovrebbe essere pronta entro la fine di novembre, scrive Andrew Black, analista politica per BBC. Il progetto di legge articolato e definitivo – “Scotland Act” – sarà invece completato per gennaio 2015, e poi sarà votato dalla Camera dei Comuni britannica. Lo Scottish National Party aveva comunque fatto sapere di non ritenere adeguate e sufficienti le promesse formulate nel documento: sui termini stessi dell’accordo c’erano inoltre alcune divergenze minori tra i tre principali partiti britannici, che – secondo Black – richiederanno tempo per essere risolte.
L’ex primo ministro britannico e attuale parlamentare laburista Gordon Brown – scozzese, che nelle scorse settimane si è impegnato attivamente e frequentemente a favore dei NO – ha annunciato che la Camera dei Comuni britannica discuterà la riforma sulle autonomie il prossimo 15 ottobre, per rispettare i tempi di consegna del progetto di legge.
Diversi analisti hanno scritto che la gestione stessa del referendum – più che il risultato finale – potrebbe avere alcune ricadute sulla compattezza dei partiti principali del Regno Unito. Alcuni politici all’interno del partito conservatore sono apparsi scontenti di come il primo ministro Cameron abbia allontanato con promesse di maggiore autonomia i timori che i “sì” potessero vincere al referendum. Il nuovo assetto costituzionale previsto dalle riforme promesse da Cameron potrebbe portare inoltre il Regno Unito ad assumere molto più di prima una struttura federale simile a quella degli Stati Uniti, in cui esiste una divisione costituzionale dei poteri molto netta tra il governo centrale e i singoli stati.
Lo Scottish National Party
Nonostante l’annuncio delle dimissioni di Salmond, lo SNP – che è il partito al governo in Scozia – resterà al potere: si procederà all’elezione di un nuovo leader il prossimo novembre, che prenderà di fatto il posto di Salmond come primo ministro. La candidata più accreditata alla successione è la viceprimo ministro Nicola Sturgeon, che potrebbe però incontrare l’opposizione di alcuni degli attuali membri del governo scozzese, come Mike Russell, Alex Neil e Roseanna Cunningham (si è invece chiamato fuori il ministro delle Finanze John Swinney, già capo del partito tra il 2000 e il 2004).
Secondo BBC, lo SNP ha mostrato notevole compattezza e unità fin dalla vittoria alle elezioni del 2007. I contrasti interni che hanno caratterizzato gran parte della sua storia potrebbero però riemergere nei prossimi mesi. Alla luce dei significativi margini di consenso di cui lo SNP continua a godere nel paese, è altamente improbabile che il partito possa perdere le prossime elezioni in Scozia, nonostante la sconfitta dei “sì” al referendum sull’indipendenza.
E il resto del Regno Unito?
Le promesse fatte alla Scozia dai politici britannici favorevoli all’unione – maggiori poteri al parlamento scozzese – hanno indirettamente posto una serie di questioni rilevanti anche sull’assetto istituzionale interno. “È giusto che i parlamentari inglesi non abbiano voce in capitolo su alcune questioni scozzesi, ma che i parlamentari scozzesi a Westminster possano ancora votare in merito a queste stesse questioni in Inghilterra?”, si chiede Black di BBC, citando anche un recente sondaggio di YouGov secondo il quale il 62 per cento degli inglesi ritiene che ai parlamentari scozzesi dovrebbe essere vietato votare leggi che riguardano soltanto l’Inghilterra.
E poi ci sono Galles e Irlanda del Nord, ai quali potrebbero stare stretti i meccanismi previsti dagli accordi tra i tre partiti nel documento condiviso. Il sostanziale proseguimento della cosiddetta “Formula Barnett” – un meccanismo utilizzato dal Tesoro britannico per distribuire la spesa pubblica in base alla popolazione nelle diverse parti del Regno Unito – potrebbe essere contestata dai paesi diversi dalla Scozia, che ha una maggiore spesa pro capite rispetto alla media degli altri paesi del Regno Unito e trae benefici dalla formula Barnett. Il partito nazionalista e indipendentista del Galles, il Plaid Cymru, sostiene che gli accordi presi nel documento condiviso lascerebbero il Galles con 300 milioni di sterline in meno all’anno.
Foto: Matt Cardy/Getty Images