Andarci piano con lo Stato Islamico
Thomas Friedman si chiede sul New York Times se gli Stati Uniti non stiano sopravvalutando la minaccia dell'IS, e se la loro reazione non rischi di essere dannosa
La scelta di Barack Obama di intensificare gli attacchi aerei contro i miliziani dello Stato Islamico (IS), nell’ambito di un più vasto piano di intervento della NATO, ha portato a un ampio dibattito sull’opportunità per gli Stati Uniti di essere coinvolti nuovamente in un conflitto che interessa direttamente i paesi arabi, in primo luogo Iraq e Siria. In molti contestano a Obama e alla NATO di essere stati troppo precipitosi nelle loro decisioni, ipotizzando che i pericoli effettivamente posti dall’IS siano sopravvalutati, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza nazionale di diversi paesi, a partire dagli stessi Stati Uniti. Thomas Friedman, editorialista del New York Times che si occupa molto spesso di esteri, si è unito agli scettici con un articolo in cui consiglia alla comunità internazionale di “fare un respiro profondo” per valutare con più razionalità i problemi posti dall’IS e dalle sue campagne militari.
Friedman scrive di avere la sensazione che la decisione di Obama di intervenire sia derivata da una serie di “paure eccessive”, a partire da quella secondo cui l’IS potrebbe presto essere un pericolo diretto per gli statunitensi. Si chiede a che cosa sia servito creare un Dipartimento della Sicurezza Interna (Homeland Security) meno di 12 anni fa, se poi si deve essere intimoriti “così rapidamente” da una minaccia esterna e fino a prova contraria ancora remota.
Pur riconoscendo, come dice Obama, che sia meglio “indebolire e distruggere l’IS”, Friedman ricorda che quando si agisce sulla base dei propri timori si perde la possibilità di pensare e agire in modo strategico. Citando un recente articolo pubblicato dal centro studi strategici Stratfor, spiega che sarebbe opportuno chiedersi che cosa accadrebbe se la strategia degli Stati Uniti fosse quella di non fare nulla, lasciando che siano i paesi arabi a occuparsi del problema. Turchia, Iran e Arabia Saudita hanno molto più interesse di altri nel tenere sotto controllo l’IS, ma non lo faranno fino a quando sanno che del problema se ne vogliono occupare gli Stati Uniti.
Friedman prosegue scrivendo che finora nessuno ha dato una risposta soddisfacente alle domande su cosa sia questa nuova guerra e in che cosa consista realmente. Cita il lavoro di Ahmad Khalidi, del St. Antony’s College di Oxford, secondo cui “questa è una guerra sull’anima stessa dell’Islam”. Per decenni l’Arabia Saudita è stata il principale sostenitore nella diffusione di moschee e scuole coraniche nei paesi arabi, con l’obiettivo di dare più spazio possibile al salafismo, scuola di pensiero sunnita che diffida della modernità, lascia poco spazio alle donne e al pluralismo religioso, persino all’interno dello stesso Islam. Il paradosso è che l’Arabia Saudita sta finanziando sia la guerra contro l’IS sia i gruppi che diffondono il salafismo saudita e che sono la principale fonte di ispirazione per chi decide di unirsi all’IS, attraverso moschee ed istituti islamici in Europa, Pakistan, Asia Centrale e il resto del mondo arabo.
Questa ambivalenza non può però reggere a lungo perché ora l’IS sta diventando una minaccia per l’Arabia Saudita. I membri dell’IS sostengono di essere al lavoro per creare il “califfato”, dichiarandosi quindi come il centro dell’Islam. Ma tradizionalmente è l’Arabia Saudita a ritenere di essere il centro dell’Islam. In secondo luogo, scrive Friedman, l’IS inizia a essere una minaccia per gli stessi musulmani in giro per il mondo, soprattutto per i più osservanti che iniziano a essere identificati come sostenitori dello Stato Islamico anche per il solo fatto di seguire la loro fede. “L’Arabia Saudita non può continuare a combattere l’IS e al tempo stesso a nutrirlo attraverso la sua ideologia” perché facendolo danneggerà in modo crescente i musulmani.
Friedman conclude scrivendo che anche gli Stati Uniti devono rivedere le loro politiche di intervento per quanto riguarda i paesi arabi. Le frequenti ingerenze sono la causa della mancata assunzione di responsabilità da parte dell’Arabia Saudita, che grazie agli Stati Uniti si può permettere di non fare i conti con le proprie contraddizioni interne: “Il futuro dell’Islam e il nostro successo contro l’IS dipendono da questo”.