Il problema della Turchia con l’IS
Il governo turco dice di voler combattere i miliziani dello Stato Islamico, ma con molti "se" e "ma": c'entrano 46 ostaggi rapiti, la paura degli attentanti e quella dei curdi
Venerdì 12 settembre, durante la sua visita in Turchia, il segretario di Stato americano John Kerry ha fatto molte pressioni sul presidente turco Recep Tayyip Erdoğan per spingerlo a unirsi alla coalizione internazionale formata nei giorni scorsi per combattere lo Stato Islamico. La ricerca dell’appoggio del governo di Ankara è stata motivata anche dal fatto che le basi aeree turche sono le più vicini ai territori controllati dallo Stato Islamico in Siria e Iraq. Secondo molti analisti, gli sforzi di Kerry non hanno portato a risultati troppo positivi, nonostante la Turchia sia un paese membro della NATO e uno dei principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente.
La Turchia mantiene delle relazioni piuttosto ambigue nei confronti dello Stato Islamico e già in passato alcuni episodi l’avevano dimostrato. Lo scorso luglio, per esempio, il governo turco negò alle forze speciali americane che organizzarono un raid per cerca di liberare James Foley, il giornalista americano rapito e poi ucciso dall’IS, l’uso delle sue basi aeree, molto vicine al bersaglio dell’operazione. I soldati americani furono costretti a usare le basi aeree di un altro paese, probabilmente la Giordania. Giovedì 11 settembre il governo turco si è rifiutato di firmare la dichiarazione di Jedda, un documento con cui Stati Uniti e nove paesi arabi – i paesi del Golfo Persico più Egitto, Iraq, Giordania e Libano – si sono impegnati a combattere lo Stato Islamico (una dichiarazione, in ogni caso, molto vaga e che non specifica gli impegni che dovranno assumere i vari alleati). La Turchia non si è rifiutata completamente di partecipare all’alleanza, ma è molto chiaro quello che non vuole concedere: le sue basi aeree non potranno essere utilizzate per compiere missioni di attacco contro lo Stato Islamico. Inoltre, l’aviazione turca, tra le più moderne di tutta la regione, non parteciperà alla campagna di bombardamenti.
Il motivo più immediato di questo rifiuto sembra il fatto che lo Stato Islamico tiene tuttora prigionieri 46 diplomatici turchi, sequestrati durante la conquista della città irachena di Mosul da parte dello Stato Islamico lo scorso giugno. Attualmente il governo turco ha cominciato un silenzio stampa sulla situazione dei diplomatici prigionieri: la Turchia, dicono diversi analisti, starebbe cercando di evitare a tutti i costi che gli ostaggi vengano uccisi con le stesse modalità violente usate dall’IS per uccidere James Foley e Steven Sotloff, cioè con la decapitazione.
Il governo turco teme anche la rappresaglia da parte dello Stato Islamico sotto forma di attentanti terroristici nel paese. Un numero compreso tra mille e tremila cittadini turchi combatte attualmente nelle milizie dello Stato Islamico, che proprio in questi giorni sono state stimate dalla CIA tra i 20 e i 30 mila combattenti (il numero è comunque oggetto di grande dibattito). Secondo la stampa turca, alcuni esponenti dello Stato Islamico hanno esplicitamente minacciato il paese di attentati terroristici in caso di un coinvolgimento diretto nel conflitto.
Fino a pochi anni fa, inoltre, la Turchia non nascondeva le sue ambizioni di diventare la potenza “guida” del Medio Oriente. Durante la primavera araba il governo turco appoggiò finanziariamente e diplomaticamente molti movimenti di rivolta, in particolare quelli più vicino ai Fratelli Musulmani. Quando in Siria scoppiò la guerra civile, la Turchia iniziò a sostenere prima i gruppi ribelli legati ai Fratelli Musulmani, e poi una coalizione sempre più ampia ed eterogenea di ribelli. Secondo l’ex ambasciatore americano in Turchia, Francis Ricciardone, la Turchia arrivò fino al punto di sostenere le formazioni dei ribelli legate ad al Qaida, nella speranza di portarle su posizioni più moderate. Secondo un diplomatico straniero intervistato da The Daily Beast: «Il governo turco sapeva che avrebbe facilmente potuto perdere il controllo di quei gruppi. Adesso quella situazione gli è scoppiata tra le mani».
L’arrivo nella guerra siriana e in Iraq dello Stato Islamico ha creato alla Turchia enormi problemi. Oggi per il governo turco è molto più complicato continuare ad appoggiare poco “selettivamente” i ribelli siriani, ma questo non significa che abbia rinunciato a cercare di abbattere il regime di Bashar al Assad. Nonostante lo Stato Islamico sia sostanzialmente impresentabile, a molti sembra che la Turchia non stia facendo abbastanza per ostacolarlo. Sul confine turco-siriano esiste per esempio un fiorente contrabbando di petrolio che finisce indirettamente per finanziare lo Stato Islamico. Alcuni leader del gruppo, inoltre, sarebbero stati curati negli ospedali pubblichi turchi oltre il confine. In altre parole: la Turchia ha ancora come obiettivo principale la destabilizzazione del regime siriano a favore dei gruppi ribelli che considera più vicini. Sarebbe quindi restia ad aiutare indirettamente il regime attaccando lo Stato Islamico (che è anche uno dei problemi del piano di Barack Obama per combattere l’IS).
Altro problema per la Turchia è dato dai curdi: negli ultimi mesi lo Stato Islamico non è stato attaccato solo dai Peshmerga, la milizia controllata dal Kurdistan iracheno: ai combattimenti hanno partecipato anche miliziani del PKK, il gruppo curdo che per anni ha condotto operazioni di guerriglia e terrorismo contro il governo turco. La coalizione anti-IS voluta da Obama prevede esplicitamente di armare i gruppi che si oppongono agli islamisti – ad eccezione delle milizie sciite controllate dall’Iran – e questo significa che alcune di queste armi potrebbero finire proprio nelle mani del PKK.
Secondo alcuni commenatori, come Semih Idiz, analista politico che scrive sul quotidiano turco Hurriyet, questo complicato groviglio di alleanze ha fatto si che il governo turco non riuscisse a formulare una risposta razionale alla crisi: «Non c’è una strategia, non c’è un piano, l’unica speranza [del governo] è che qualcuno risolva questa faccenda al posto suo». Secondo Idiz i ministri del governo «sono paralizzati». Il risultato di questa paralisi si può vedere chiaramente nella conclusione dell’incontro tra Kerry ed Erdogan. Come se stesse cercando di tenere il piede in due staffe, il governo turco ha accettato di partecipare alla coalizione, ma ha imposto tanti e tali paletti che il suo contributo rischia di essere sostanzialmente trascurabile.