10 giorni al referendum sulla Scozia
Dopo il sondaggio che ha dato per la prima volta in vantaggio i favorevoli all'indipendenza la sterlina è crollata e i partiti britannici hanno promesso maggiori autonomie: una guida
Mancano dieci giorni al referendum che si svolgerà in Scozia per decidere l’indipendenza politica dal Regno Unito. Si tratta di una questione complicata e importante, che potrebbe avere grandi conseguenze politiche ed economiche e che potrebbe portare a richieste simili non solo da parte delle altre nazioni costitutive del Regno Unito (Galles e Irlanda del Nord) ma anche nel resto dell’Europa. Quella che segue è una breve guida, per capirci qualche cosa.
Cose pratiche
Il referendum si svolgerà il prossimo 18 settembre. Il quesito a cui gli elettori e le elettrici risponderanno sarà:
“Siete d’accordo che la Scozia diventi una nazione indipendente?”
Il governo scozzese locale, promotore del referendum, aveva insistito per dare ai cittadini la possibilità di scegliere una forma di autonomia radicale ma senza la completa indipendenza, un’ipotesi che avrebbe attratto molti elettori; il Regno Unito era contrario e ha permesso solo un referendum secco sull’indipendenza. Se alla fine dovessero vincere i “sì”, la Scozia diventerebbe indipendente dal Regno Unito il 24 marzo del 2016 ma manterrebbe la regina Elisabetta come capo di Stato.
L’età minima di partecipazione è stata abbassata a 16 anni (normalmente è 18 per le altre elezioni). Oltre agli scozzesi, possono votare tra i residenti in Scozia anche i cittadini britannici, i cittadini dei paesi del Commonwealth (l’associazione delle ex colonie britanniche) con diritto di permanenza nel Regno Unito e i cittadini dell’Unione Europea.
Gli ultimi sondaggi
Lo scorso fine settimana è stato pubblicato un sondaggio condotto dall’istituto YouGov per il giornale britannico Sunday Times, secondo cui per la prima volta in Scozia i favorevoli all’indipendenza sarebbero in vantaggio e avrebbero raggiunto e superato di un punto la maggioranza degli elettori: il 51 per cento degli scozzesi voterebbe sì, mentre voterebbe no soltanto il 49 per cento. Altri sondaggi, come quello di Panelbase, danno ancora i “no” in vantaggio, anche se per pochi punti percentuali. Quello che è significativo è che il fronte dei “sì”, nelle ultime settimane, sembra aver parecchi punti: alla fine di agosto erano ancora il 39 per cento, a dodici punti di distanza dai “no”.
Reazioni al sondaggio
Dopo la pubblicazione del sondaggio il valore della sterlina è sceso ai livelli più bassi degli ultimi dieci mesi. Secondo diversi analisti il calo potrebbe peggiorare ancora in caso di una vittoria dei sì. Il Telegraph ha pubblicato di recente in prima pagina un articolo intitolato: «Sì, il voto potrebbe portare al crollo della sterlina». Il Financial Times ha intervistato l’Amministratore Delegato dei Lloyd’s di Londra, John Nelson, che ha detto come «sia nell’interesse di tutta la popolazione scozzese e di tutta la popolazione britannica che l’unione venga mantenuta».
Ci sono insomma molti aspetti ancora incerti che riguardano l’ipotetica indipendenza della Scozia (e che sono stati i principali argomenti della campagna referendaria a favore dei “no”): ci sarebbero aumenti sostanziali nei costi di gestione del welfare, dell’energie e di ogni altro settore? La Scozia aderirà alla NATO e all’Unione Europea? Quale sarà la moneta scozzese? Come verrà ripartito il debito pubblico? E il petrolio del Mare del Nord i cui investimenti, finora, sono stati fatti principalmente dal governo britannico?
Nel frattempo, dopo gli ultimi sondaggi, il cancelliere dello scacchiere britannico George Osbourne (cioè il ministro delle Finanze) ha reagito promettendo nuovamente alla Scozia una maggiore autonomia in materia fiscale, di spesa pubblica e welfare in caso di voto contrario all’indipendenza. Non ci sono però notizie più precise su queste concessioni e resta da vedere se si tratta di proposte nuove rispetto a quelle già sottoscritte all’inizio di agosto dai tre principali leader dei partiti britannici (David Cameron, primo ministro del Regno Unito, Ed Miliband, laburista, e Nick Clegg, vice primo ministro esponente del partito liberal democratico). Per recuperare voti il fronte del “no”, la cui campagna elettorale si chiama “Better together” (“meglio insieme”) ed è condotta dal laburista e membro della Camera dei Comuni Alistair Darling, sta puntando sul fatto che anche in caso di voto contrario all’indipendenza gli scozzesi non rimarranno nell’attuale situazione, ma otterranno una maggiore autonomia senza dover affrontare i rischi però di un’indipendenza totale.
Perché?
Le richieste di un’indipendenza politica della Scozia dal Regno Unito arrivano da lontano: lo Scottish National Party (SNP), il maggior partito che la chiede, fu fondato nel 1934 e per larga parte della storia recente scozzese ha esteso il suo consenso elettorale sottraendolo alle emanazioni locali dei due maggiori partiti britannici. Nel 1979 l’SNP riuscì ad organizzare un referendum per la formazione di un parlamento scozzese, ma non raggiunse il quorum (avrebbe dovuto votare per il sì almeno il 40 per cento dell’elettorato, ma l’affluenza fu piuttosto bassa).
(La storia dell’indipendentismo scozzese)
Fu un secondo referendum sul tema tenuto nel 1997 a portare alla formazione di un parlamento locale scozzese, la cui prima seduta si tenne il 12 maggio del 1999. Negli ultimi anni, anche grazie alla vittoria elettorale dell’SNP alle elezioni politiche del 2011, si è posta con maggiore insistenza la questione di un’indipendenza completa dal Regno Unito: nell’ottobre del 2012 il primo ministro inglese David Cameron e quello scozzese Alex Salmond – che è anche l’attuale capo dell’SNP, che complessivamente si trova su posizioni più vicine a quelle dei Labour che dei Conservatori – si accordarono per un referendum sull’indipendenza da tenere nell’autunno del 2014. Cameron, che teme che una vittoria del sì possa avere notevoli conseguenze politiche sul proprio governo – oltre che sul Regno Unito in generale – sta facendo un’intensa campagna.