Un mondo di tonno in scatola
Come funziona il mercato di un alimento universale che è in crisi negli Stati Uniti e consumatissimo in Italia: tra implicazioni ambientali e abitudini culturali
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
Se siete italiani, c’è il cinquanta per cento di possibilità che negli ultimi sette giorni abbiate mangiato almeno una volta del tonno in scatola. Secondo uno studio dell’istituto Doxa, realizzato lo scorso marzo, se siete in questo cinquanta per cento, c’è un ulteriore venticinque per cento di probabilità che lo abbiate mangiato tra le tre e le cinque volte negli ultimi sette giorni (chi scrive specifica qui di appartenere a questa seconda categoria). Nel 34 per cento dei casi, con quella scatoletta avete preparato una pasta al tonno, nel 18 per cento un’insalata. È normale, visto che siamo uno dei paesi con il più alto consumo annuale di tonno in scatola pro capite al mondo: 2,2 chilogrammi. In Europa soltanto gli spagnoli ci battono, con un consumo di 3,1 chili l’anno pro capite.
Il tonno nel mondo
Negli Stati Uniti del business del tonno si parla parecchio da almeno vent’anni anche se ne viene consumato molto meno che in Italia. E due settimane fa un lungo articolo del Washington Post ha raccontato la storia del lento declino del mercato del tonno negli Stati Uniti. Nel 2010 gli americani hanno mangiato in media 900 grammi di tonno in scatola: la stessa quota che ne consumavano quarant’anni fa. Dopo essere cresciuto ininterrottamente per più di sessant’anni, all’inizio degli anni Novanta il consumo di tonno in scatola ha cominciato a declinare. Dal record del 1989, quando gli americani ne mangiavano in media 1,7 chili all’anno, il consumo si è praticamente dimezzato. Il declino del tonno in scatola negli Stati Uniti è coinciso con alcune delle campagne ambientaliste più efficaci della storia recente.
Nel 1970 un professore di chimica dell’università di New York scoprì che in alcune scatolette di tonno c’erano livelli di mercurio pericolosi. Quello stesso anno, la Food and Drug Administration (l’agenzia del governo americano che si occupa della sicurezza alimentare e dei farmaci) ritirò dal commercio un milione di scatolette. Negli anni successivi il governo americano perse interesse nella questione e la soglia accettabile di mercurio venne innalzata. Ma la campagna iniziata dalla FDA venne proseguita da numerose associazioni ambientaliste che presero di mira specifiche aziende con campagne aggressive di boicottaggio. Presto, dopo gli allarmi sul mercurio, gli ambientalisti cominciarono ad accusare gli inscatolatori di comprare tonno da fornitori che durante la pesca uccidevano anche delfini (un problema che, negli ultimi quindici anni, è praticamente scomparso).
Questi due attacchi al tonno si dispiegarono contemporaneamente a un aumento dei prezzi della materia prima. Tanto negli Stati Uniti, quanto in Italia (come vedremo tra poco), le riserve di tonno nei mari a portata di mano si sono fatte negli anni sempre più ridotte ed è diventato necessario importarlo da mari sempre più lontani (e a un prezzo sempre più alto). Intanto la crescita economica nei paesi dell’Asia orientale ha fatto aumentare la domanda e visto che l’offerta è persino diminuita, i prezzi sono continuamente aumentati: oggi il tonno costa più del salmone sul mercato delle materie prime. Il risultato è che in vent’anni il consumo di tonno negli Stati Uniti si è quasi dimezzato e i produttori non hanno molte speranze di invertire il trend. Secondo le previsioni, le vendite totali di tonno caleranno ancora del tre per cento entro il 2018.
E in Italia?
In Italia e nel resto d’Europa le cose stanno diversamente. Non solo negli ultimi anni il consumo di tonno è rimasto stabile, ma in alcuni casi è persino aumentato. Nel 1999-2001 in Italia si consumavano circa 2 chili di tonno l’anno a testa, dieci anni dopo erano 2,2. L’Unione Europea è il più grande mercato di tonno in scatola e assorbe da sola più del cinquanta per cento della produzione mondiale. In Europa il mercato più grande è quello italiano, con circa 120 mila tonnellate di tonno acquistate ogni anno, anche se nel corso del 2013 c’è stata una lieve flessione. In altre parole, mentre negli Stati Uniti crescevano le critiche contro il consumo di tonno, e mentre i prezzi della materia prima continuavano ad aumentare, in Italia il consumo è persino aumentato.
Ci sono diversi motivi per spiegare questa situazione. Vittorio Gulli, presidente della Generale Conserve, la seconda azienda nel mercato del tonno in Italia, proprietaria tra gli altri del marchio Asdomar, dice: «È una questione di abitudine e di cultura». Negli Stati Uniti circa due terzi del tonno in scatola vengono utilizzati per preparare sandwich in cui il tonno è mescolato con salse dal sapore molto marcato. Per questo tipo di consumo, gli inscatolatori americani pensarono che non fosse necessario un tonno di alta qualità e questo permise loro di tenere i prezzi estremamente bassi. Fino a pochi anni fa una scatoletta da ottanta grammi di tonno costava mezzo dollaro, circa 30 centesimi di euro. Aprendo una di questa scatolette, chiamate di “light” o “white meat tuna in water”, un consumatore abituato al tonno italiano rimarrebbe molto stupito. Non c’è traccia della struttura muscolare del tonno che si può trovare nei prodotti di gamma medioalta in Italia (quelle fessure che secondo una famosa pubblicità “si tagliano con un grissino”). Nelle scatolette americane, invece, sono presenti diversi tipi di tonno suddivisi in pezzi piuttosto piccoli che galleggiano in acqua o olio di soia (qui potete vedere alcune fotografie).
Questo tipo di tonno ha un basso “valore aggiunto”: non è un prodotto ricercato né lavorato con particolare cura. Gran parte del costo del prodotto, quindi, deriva dal prezzo della materia prima. Questo permette di tenere i prezzi bassi, ma rende il tonno in scatola americano molto suscettibile alle fluttuazioni del prezzo del tonno pescato. In Italia, dove la materia prima incide per circa il 40 per cento nei prodotti normali e per il 15-20 per cento nei prodotti premium, l’aumento dei prezzi del tonno non incide così tanto sul prezzo che paga il consumatore finale. Secondo Luciano Pirovano, direttore della Corporate Social Responsability di Bolton Alimentari, prima azienda in Italia e in Europa nelle vendita di tonno in scatola, questa è la principale ragione del declino del mercato americano: «Negli Stati Uniti il tonno costava troppo poco ed era di qualità molto bassa: quando il costo della materia prima si è alzato, anche il prezzo del tonno è cresciuto e a quel punto non valeva più la pena acquistarlo». Questa situazione si riflette anche nel tipo di tonno che viene inscatolato: negli Stati Uniti e nell’Europa del nord si usa soprattutto il tonno striato, più economico e di minore qualità, mentre in Italia e nel resto dell’Europa meridionale si utilizza più spesso il pinna gialla, più costoso e di qualità superiore. Questa differenza deriva anche dall’uso che si fa del tonno. In Italia spesso si usa come unico condimento di una pasta, oppure come pezzo forte in un’insalata mangiata in pausa pranzo, due alimenti in cui si nota facilmente se il tonno non è di buona qualità.
Un altro motivo è probabilmente che in Italia le campagne aggressive contro il tonno non hanno avuto il successo che hanno avuto negli Stati Uniti. O, a seconda dei punti di vista, ne hanno avuto molto. In Italia il mercato del tonno in scatola è dominato dalle due società citate: Bolton Alimentari, che ha come marchio principale Rio Mare, con poco meno del 40 per cento del mercato totale e Generale Conserve, che ha come marchio principale Asdomar. Il tonno in scatola Asdomar e quello Rio Mare sono rispettivamente al primo e terzo posto nella classifica di Greenpeace sulla pesca sostenibile del tonno. L’associazione ambientalista assegna i punteggi della sua classifica sulla base di una serie di valori come la tracciabilità del prodotto, la sua provenienza da aree non sovrasfruttate e l’utilizzo di tecniche di pesca che non mettono a rischio la riproduzione dei tonni o altre specie, come squali o delfini. Gulli spiega che la scelta della sua azienda di adottare numerosi di questi criteri è dovuta a un calcolo imprenditoriale: «Mio suocero era un contadino e mi ha insegnato che è una scelta sbagliata tirare il collo all’ultima gallina se prima non ha deposto almeno un altro uovo».
Secondo Pirovano, che è anche executive director della International Seafood Sustainability Foundation (ISSF, un’associazione no-profit a cui partecipano industriali, scienziati e WWF), la pesca del tonno negli ultimi anni è arrivata al suo livello massimo: 4,2 milioni di tonnellate all’anno, di cui un terzo viene inscatolato e due terzi sono venduti per altri utilizzi (per la cucina giapponese, in particolare). Secondo la ISSF, questa è la quantità massima di tonno che è possibile pescare ogni anno senza danneggiare definitivamente la specie. «C’è ancora margine per crescere in questo settore, ma più in termini di qualità che di volumi», spiega Pirovano. In altre parole se l’industria del tonno deve crescere può farlo solo migliorando i propri prodotti e aumentando il loro valore aggiunto, conquistando magari mercati (come gli Stati Uniti), dove c’è ancora spazio per vendere un tonno di qualità più elevata che offre margini di guadagno più ampi. Si tratta di un fenomeno, come ha notato il Washington Post, che è già in corso. Anche se negli Stati Uniti le vendite totali sono diminuite, il fatturato dell’industria del tonno in scatola è rimasto più o meno stabile, proprio grazie alla diffusione di prodotti di gamma più alta.
Ma è giusto mangiare tonno?
Riassumiamo: in Italia, come nel resto del sud Europa, i consumatori sono abituati a mangiare tonno di qualità medio-alta, ne mangiano molto e lo utilizzano in un tipo di piatti in cui il tonno è l’ingrediente principale. Si tratta di un’abitudine radicata, quindi, difficile da interrompere anche a fronte di un aumento dei prezzi. Inoltre, i principali produttori di tonno in scatola si sono adattati alle richieste dei gruppi ambientalisti, probabilmente risparmiandosi alcune dure campagne di boicottaggio mirate. I produttori manifestano un atteggiamento aperto sulle questioni della conservazione della specie e sono molto interessati a dare un’immagine di sé socialmente responsabile. Questo significa che oggi mangiamo un tonno più sano e pescato con criteri più sostenibili di quanto facevamo in passato? In qualche misura sì, ma la risposta a queste domande non è semplice.
Dario Bressanini, chimico e divulgatore scientifico, ha dedicato un capitolo del suo libro “Le bugie nel carrello” proprio al tonno. «Sono un po’ diffidente rispetto ai criteri scientifici adottati da Greenpeace», spiega Bressanini: «Non si tratta di scelte completamente sbagliate, ma ci sono regolamenti migliori». Come ad esempio i numerosi regolamenti internazionali approvati dalla FAO e dagli altri organismi che regolano la pesca del tonno (tra cui, in un ruolo più di consulenza che di regolamentazione, c’è anche la ISSF). Secondo questi enti, gran parte delle specie di tonno non possono sostenere un incremento della pesca, aldilà dei metodi utilizzati. Alla base di queste regolamentazioni, spiega Bressanini, ci sono studi scientifici di esperti qualificati e sappiamo per certo che rappresentano linee guida che se rispettate consentiranno di proteggere efficacemente il tonno. Non c’è altrettanta certezza che le linee guida di Greenpeace funzionino così bene. L’unica risposta a questi problemi, probabilmente, è che i pescatori si adeguino ai regolamenti internazionali più stringenti e che i consumatori, anche quelli italiani, accettino di mangiare meno tonno (pagandolo magari un po’ di più).
Un altro aspetto da considerare è proprio è la qualità del tonno. In generale si tratta di un buon alimento, spiega Bressanini: «Ricco di omega 3, di proteine nobili e di grassi insaturi che fanno meno male di quelli saturi presenti nella carne». Secondo Gulli è anche un alimento che nonostante l’aumento dei prezzi è ancora economico rispetto ad altri cibi: «Una scatola da 250 grammi di tonno costa sei euro. Due etti e mezzo di tonno sono molto più di un pasto completo. Inoltre immaginate come sono stati ottenuti quei 250 grammi. Sono stati pescati in mezzo all’Oceano Indiano, magari con un mare in tempesta. Poi portati in Italia, lavorati a mano. Sei euro possono sembrare molti, ma dovete pensare che è lo stesso prezzo per mangiare una pizza».
Resta la questione del mercurio. Secondo Bressanini non esiste un «allarme tonno», ma il problema va comunque affrontato. Il mercurio è presente nel mare sia a causa dell’inquinamento, sia per motivi naturali, come le eruzioni dei vulcani sottomarini. Tutti i pesci assorbono mercurio, ma quelli più grandi e in cima alla catena alimentare (come i tonni) ne assorbono di più. Scegliere tonni più grandi e più vecchi, per conservare la specie, ha l’effetto collaterale di far aumentare la quantità di mercurio nelle scatolette di tonno. Si tratta di un livello pericoloso? Non si può sapere con certezza: dalle indagini a campione risulta che il livello medio di mercurio nelle scatolette di tonno vendute in Italia è sotto la soglia di legge, ma questo non toglie che alcune singole scatolette di tonno possano avere livelli superiori. Certo: la soglia, spiega Bressanini, è considerevolmente più bassa del livello di mercurio ritenuto dannoso, ma le categorie più a rischio, come le donne incinte o i bambini, dovrebbero comunque consumare tonno con attenzione. Negli Stati Uniti, dove, come abbiamo visto, le campagne sul mercurio hanno avuto molta efficacia, sono molto diffuse tabelle e consigli sulle quantità massime di tonno per adulti, bambini e donne incinte (il Washington Post ne ha parlato in un altro articolo qui).
Detto questo non bisogna dimenticare che il tonno, a differenza di molti altri alimenti, non ha mai ucciso nessuno. L’alcol, una sostanza che è indubbiamente cancerogena, non ha mai incontrato simili campagne di boicottaggio. Bressanini spiega che ogni cosa che mangiamo ha potenzialmente dei rischi: si tratta di conoscerli e bilanciarli. Questo bilanciamento è probabilmente la cosa più difficile da ottenere. Spiegare agli italiani che il tonno non è dannoso, ma che va comunque consumato con attenzione; che non è a rischio immediato di estinzione, ma che comunque non si può pensare di incrementarne la pesca, è un compito molto difficile per i media, soprattutto per quelli che tendono all’allarmismo. Per la fortuna dei produttori, nessuno nel nostro paese ha ancora gridato al “tonno killer”, ma per la sfortuna dei consumatori, nessuno sembra molto interessato a spiegare che un paio di scatolette a settimana durante la gravidanza forse sono un po’ troppe.