Armare l’Ucraina, o farla arrendere
L'Occidente deve essere conseguente con le sue dichiarazioni di amicizia per l'Ucraina e simpatia per i suoi desideri europeisti, sostiene un'analisi sul New York Times
Negli ultimi giorni di agosto, in seguito alla recente apertura di un nuovo fronte nella guerra tra le forze militari ucraine e i separatisti filo-russi, i media internazionali si sono ripetutamente interrogati riguardo alla necessità di definire in modo inequivocabile la posizione dell’Occidente nel conflitto in Ucraina orientale, prendendo una posizione chiara sulla presunta invasione da parte della Russia e il sostegno assicurato da Putin alle forze filo-russe, più volte dato per certo dall’intelligence americana, dalla NATO e dal governo ucraino. Si stima che almeno 2.200 persone siano state uccise finora. “Russia e Ucraina sono in guerra” – scrive sul New York Times Ben Judah, studioso della Russia e autore di un libro sulla Russia e Putin – “e le potenze occidentali – America, Europa, NATO – adesso non hanno più buone opportunità , ma non possono neanche non fare niente”: le due alternative, secondo Judah, sono armare l’Ucraina o spingere Kiev ad arrendersi, per risparmiare ulteriori perdite, permettendo così al presidente russo Vladimir Putin di decidere quali territori ritagliarsi all’interno di una zona occupata dai russi.
“L’Occidente deve essere onesto con l’Ucraina”, sostiene Judah, ricordando come l’Ucraina stia sostenendo elevate spese di guerra mentre l’economia del paese è a pezzi e reduce da un periodo di crisi politica e scontri di piazza: “ne parliamo come se questo paese fosse uno dei nostri – pensando che un giorno diventerà membro dell’Unione europea e della NATO, che è la speranza di Kiev – ma intanto l’Occidente non sta fornendo all’Ucraina i mezzi per combattere questa guerra”.
Tra pochi mesi, senza aiuti significativi da parte dell’Occidente, l’Ucraina avrà definitivamente perso il nucleo centrale del suo esercito, e con esso la sua infatuazione per l’Occidente. Questa sarà rimpiazzata da un senso di tradimento, e non ci sarà alcun modo di sopravvivere per i movimenti liberali a favore dell’Unione europea. Gli estremisti di destra, ora ai margini del parlamento, potranno salire al potere sui coperchi delle bare dei soldati ucraini che rientreranno dal fronte. L’Ucraina diventerà una zona di conflitto devastata: una Siria europea, o una Bosnia tremendamente allargata. Non possiamo permettere che questo accada.
Se davvero l’Occidente crede che l’Ucraina possa un giorno far parte dell’Unione Europea, suggerisce Judah, allora occorre agire di conseguenza e “prendere atto che questa guerra per procura con la Russia è il prezzo dell’espansione illimitata dell’UE e della NATO”, e che questa guerra va combattuta. All’Ucraina dovrebbe essere innanzitutto garantito un sopporto logistico e satellitare completo, oltre che il sostegno di tutta l’intelligence; e poi bisognerebbe fornire all’esercito armi da fuoco, carri armati, droni e kit medici a tonnellate, contro i suoi nemici aiutati intanto dalla Russia. Se davvero i carri armati russi dovessero aprirsi un varco fino in Crimea, come temuto da diversi osservatori, allora occorrerebbe anche essere pronti a impiegare truppe della NATO.
Se invece l’Occidente non è pronto ad affrontare questi rischi, dice ancora Judah, l’alternativa è obbligare l’Ucraina – che dipende completamente dal Fondo Monetario Internazionale – ad arrendersi, e prendere atto che la Russia si è ritagliata una nuova parte di Ossezia del sud nei territori orientali dell’Ucraina. “Potremmo salvare migliaia di vite, in questo modo, ma sarebbe una sconfitta schiacciante per l’Occidente”, dice il New York Times: “l’Occidente concederebbe, di fatto, la possibilità alla Russia di invadere o annettere a suo piacimento qualunque di questi stati”. Non c’è alcun modo facile per uscirne, oramai, conclude: ma non bisogna permettere che migliaia di soldati ucraini continuino a morire “perché noi tentenniamo”.
Una posizione pienamente compatibile con quella del di Judah è espressa sul quotidiano britannico Guardian dall’ex generale statunitense Wesley Clark, poi candidato alle primarie presidenziali del Partito Democratico. Secondo Clark la politica delle sanzioni alla Russia da parte della comunità internazionale si è dimostrata fallimentare, dopo che la Russia ha deciso di portare avanti una nuova forma di guerra basata sulla provocazione, e dopo che questo ha portato a una lenta ma progressiva evoluzione del conflitto. Piuttosto che lasciarsi intimorire dalle sanzioni della comunità internazionale – che pure potrebbero avere effettivamente arrecato dei danni all’economia russa, spiega Clarke – Putin ha usato quelle sanzioni per rafforzare la sua influenza sui settori maggiormente impegnati con l’Occidente, e per ottenere maggiore consenso dal suo elettorato.
Le provocazioni di Putin, scrive Clark, non sono state provocate a loro volta, e sarebbero piuttosto parte di un piano a lungo termine per “ricreare una grande Russia riguadagnando il controllo dell’Ucraina e di altri stati nelle vicinanze” (e la Russia non ammetterà mai di aver invaso l’Ucraina, perché questo provocherebbe necessariamente una forte risposta da parte della NATO). Ma finché i governi occidentali non cominceranno a definire le azioni della Russia – senza alcuna ambiguità – “aggressione” e “invasione”, ci saranno difficoltà nel guadagnare il supporto e il consenso per le azioni che sarà necessario prendere.