Che fare delle altre foto di Abu Ghraib
Negli Stati Uniti si discute dell'opportunità di rendere pubbliche migliaia di immagini tenute finora nascoste dal governo sugli abusi dei soldati statunitensi durante la guerra in Iraq
Domenica 31 agosto un duro editoriale del New York Times ha ripreso una notizia recentemente tornata di attualità a proposito delle fotografie delle torture subite dai prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib, vicino a Baghdad, durante le prime fasi della guerra in Iraq, tra il 2003 e il 2004. Il 27 agosto scorso un giudice federale della città di New York, negli Stati Uniti, in una causa legale che va avanti dal 2004 tra il ministero della Difesa e la American Civil Liberties Union – un’organizzazione statunitense non governativa che difende i diritti civili – ha annunciato che potrebbe ordinare la pubblicazione di migliaia di fotografie e di altro materiale finora rimasto nascosto se il governo non provvederà a spiegare dettagliatamente i motivi per cui questo potrebbe comportare un rischio per la sicurezza di vite americane, e se non dimostrerà di aver valutato le foto singolarmente, una per una. Una prima udienza a riguardo è fissata per il prossimo 8 settembre.
Il NYT scrive che la pubblicazione di più di duemila foto – scattate ad Abu Ghraib e in altre strutture gestite da militari statunitensi in Iraq e in Afghanistan – è finora stata impedita dal governo sfruttando una legge del 2009 che, tra le altre cose, impedisce la pubblicazione di documenti la cui rivelazione potrebbe costituire una minaccia per la sicurezza nazionale. Le foto di Abu Ghraib, pubblicate nell’aprile del 2004, portarono a uno scandalo molto seguito e ripreso dai media di tutto il mondo, causando una larga e condivisa indignazione nell’opinione pubblica.
La notizia dell’esistenza di altre foto oltre a quelle pubblicate circola da diversi anni. Già nel 2009, quando i militari statunitensi erano ancora impegnati in Iraq, il governo riuscì a impedire la pubblicazione di nuove foto appellandosi al Protected National Security Documents Act, una legge del 2009 tramite cui riuscì a ottenere un’esenzione di tre anni dell’applicazione del Freedom of Information Act (la legge federale che invece impone trasparenza alla pubblica amministrazione e permette a cittadini e media di avere accesso totale o parziale a materiali di pubblico interesse). Scaduti i tre anni, nel 2012, il governo fece una nuova identica richiesta, per estendere il periodo del divieto di pubblicazione: il giudice Alvin Hellerstein ha spiegato di comprendere la richiesta fatta dal governo nel 2009 ma non quella del 2012, quando lo scenario in Iraq era già profondamente mutato e gli Stati Uniti non erano più impegnati nella guerra.
«Tre anni è un periodo di tempo molto lungo per la guerra, per il ciclo delle notizie, per il dibattito su come affrontare il terrorismo», ha detto Hellerstein, aggiungendo di non essere a conoscenza dell’esistenza di richieste esplicite da parte delle autorità irachene di mantenere segrete quelle fotografie (richiesta effettivamente giunta, invece, nel 2009 da parte del primo ministro iracheno Nuri Kamal al Maliki, per timore di ritorsioni da parte dei ribelli sunniti). Secondo alcune fonti governative, già citate dal New York Times nel maggio del 2009, le foto mai pubblicate sulle torture e gli abusi nelle strutture militari statunitensi in Iraq e Afghanistan sono “peggiori di quelle di Abu Ghraib”, e sarebbero talmente tante da rendere impossibile sostenere la tesi secondo cui quegli abusi furono compiuti da “poche mele marce” nei corpi militari. «Ho preso visione di alcune di queste foto», ha detto il giudice Hellerstein, «e so che molte di queste fotografie sono relativamente innocue mentre altre richiedono una più seria considerazione».
Lo scandalo degli abusi ad Abu Ghraib scoppiò circa dieci anni fa, quando il programma televisivo d’inchiesta americano 60 minutes mostrò per la prima volta le immagini delle torture subite dai prigionieri iracheni: nelle foto molti di loro venivano mostrati nudi, con il volto coperto da un cappuccio, tenuti al guinzaglio come cani o costretti a rimanere sdraiati mentre militari americani – apparentemente piuttosto compiaciuti – rimanevano seduti sopra di loro. Nell’immagine divenuta il simbolo dello scandalo, un prigioniero incappucciato è costretto a rimanere in piedi su una scatola, con le braccia aperte e dei fili elettrici collegati alle dita delle mani.
Dopo l’occupazione statunitense del 2003, il carcere di Abu Ghraib – all’epoca abbandonato da diversi mesi in seguito a un’amnistia proclamata da Saddam Hussein nel 2002 – era stato riaperto e trasformato dal governo provvisorio iracheno e dall’esercito americano nella principale prigione della capitale. La prigione era sostanzialmente divisa in due parti: il governo provvisorio iracheno gestiva la struttura dove venivano tenuti in custodia i prigionieri già condannati da un tribunale; i soldati americani gestivano invece un’altra struttura dove venivano rinchiusi e interrogati sospetti e persone ritenute “interessanti”.
Per i fatti di Abu Ghraib, a oggi, in totale undici militari americani hanno subito condanne di vario tipo: il più alto in grado ad essere punito è stato il comandante della prigione, il colonnello Thomas Pappas, multato e cacciato dall’esercito. Altri sottufficiali e altri soldati, quelli ritratti nelle foto, sono stati variamente condannati a pene come l’esclusione dall’esercito e il carcere (chi ha ricevuto la sentenza più lunga ha passato sei anni in prigione).
Sebbene altri processi siano attualmente in corso, nessuno finora è mai stato condannato per le morti avvenute all’interno della prigione, e nessun contractor privato è mai stato penalmente processato, così come nessun agente della CIA o dell’intelligence militare. I vertici delle forze armate, compresi quelli che avrebbero incoraggiato i militari a praticare gli abusi per “ammorbidire i prigionieri”, non sono stati indagati. Una delle società di contractor che hanno lavorato nella prigione è stata condannata in una causa civile ad un risarcimento da 5,28 milioni di dollari nei confronti di 71 detenuti.
Conclude l’editoriale del New York Times:
Le immagini di guerra sono spesso orribili, e la sicurezza dei cittadini e dei soldati americani è di vitale importanza. Ma la più grande minaccia per la sicurezza non sta nelle fotografie del comportamento orribile bensì nel comportamento stesso. Il trattamento dei prigionieri iracheni ad Abu Ghraib e altrove è stato un episodio vergognoso nella storia degli Stati Uniti. L’America rafforza i propri valori, e pertanto la propria sicurezza, dimostrandosi trasparente anche riguardo ai peggiori abusi di quei valori, non nascondendone le prove in fondo a un cassetto.