Gli occidentali nell’ISIS
Sono circa tremila, e di molti si sa da dove vengono e cosa facevano prima: l'Economist ha cercato di capire le loro motivazioni
Da molti mesi si discute del fatto che lo Stato Islamico, un’organizzazione terrorista composta da milizie armate sunnite che sta conducendo una guerra di conquista in Iraq e in Siria, abbia attratto numerosi combattenti provenienti da paesi europei e occidentali e li abbia coinvolti nelle proprie azioni violente. In realtà il tema è antico: dopo molte storie dello scorso decennio su occidentali arruolati in gruppi vicini ad al Qaida, già dallo scorso anno circolano notizie di occidentali che si trasferiscono in Siria e combattono assieme ai ribelli locali contro il regime sciita di Bashar al Assad (è stato stimato che la guerra civile, finora, abbia causato la morte di 191mila persone). La questione è rilevante e preoccupante per due motivi: per prima cosa sovverte il luogo comune che il fanatismo religioso e le sue violente conseguenze possano diffondersi unicamente in paesi economicamente arretrati; dall’altro lato, si temono le conseguenze del possibile rientro nel proprio paese di origine di persone dalle convinzioni religiose radicali addestrate a compiere atti terroristici.
Negli ultimi mesi, tra le notizie più rilevanti sulla questione ci sono state quella relativa al primo attentato suicida realizzato da un americano in Siria, nel maggio del 2014 (la cui genesi è raccontata in un lungo articolo di Mike Giglio su Buzzfeed), e quella dell’uccisione del giornalista americano James Foley – rapito in Siria nel 2012 – da parte di un membro dell’IS che parlava con evidente accento britannico. Ma si è anche saputo di due americani uccisi mentre combattevano con l’IS e di un’altra decina partiti dagli Stati Uniti per farlo e identificati dal governo americano.
L’Economist ha provato a mettere in fila le cose che sappiamo, in particolare, riguardo agli occidentali che stanno combattendo fra i ribelli sunniti in Siria, fra i quali la componente oggi più potente e pericolosa è appunto quella dei combattenti dello Stato Islamico.
Chi sono, come ci arrivano
Secondo l’Economist, che ha messo insieme dati provenienti da diversi centri di studio, sono perlopiù uomini con meno di quarant’anni – ma in alcuni paesi la percentuale delle donne è circa del 10-15 per cento – la cui maggior parte proviene da paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Soufan Group, un’agenzia privata che si occupa di sicurezza e collabora con governi e multinazionali, ha stimato che fino a 12mila combattenti stranieri siano arrivati in Siria, fra cui circa tremila occidentali. Secondo Peter Neumann, un esperto di terrorismo che insegna al King’s College di Londra contattato a giugno dall’International Business Times, fino all’80 per cento di questi tremila occidentali si è aggregato alle milizie dello Stato Islamico.
Domenica 31 agosto, Mike Rogers, deputato repubblicano USA e presidente della commissione Servizi Segreti della Camera dei Rappresentanti, ha detto che le centinaia di persone con cittadinanza statunitense, inglese e canadese che si sono formate e addestrate con i combattenti dell’ISIS in Iraq e in Siria rappresentano «una minaccia molto grave» per gli Stati Uniti, soprattutto gli americani che hanno dei passaporti e hanno la possibilità di entrare nel paese senza un visto. Per quanto riguarda il loro numero, recentemente, il ministro della giustizia Eric Holder, in base ai dati delle agenzie di intelligence USA, aveva citato «decine» di americani su 7 mila combattenti stranieri attivi in Siria. Rogers ha però precisato che il loro numero è ben superiore rispetto a quello di cui si è finora parlato.
Il paese da cui provengono più combattenti stranieri in rapporto al numero degli abitanti è il Belgio: a fronte di una popolazione di circa 11 milioni di persone, 250 sono andate in Siria per unirsi ai ribelli. Più di venti persone su un milione.
Secondo un esperto contattato dall’Economist, nonostante la relativa bassa percentuale di combattenti sulla base della popolazione, il Regno Unito «resta il centro di gravità per le reti jihadiste europee». L’Economist scrive anche che Londra, negli anni Novanta, «fu un rifugio per molti estremisti, inclusi molti islamisti». Un lungo articolo di Buzzfeed sulla presenza di britannici fra le milizie dell’IS riporta che nel Regno Unito il problema «è esacerbato dalla presenza di imam dalla fede radicale». Il London Evening Standard riporta che nei primi sei mesi del 2014 ci sono stati nel Regno Unito 69 «arresti collegati alla questione della Siria» (lo scorso anno, nello stesso periodo, erano stati 25).
L’Economist riporta inoltre che arrivare in Siria è piuttosto semplice, nonostante la Turchia abbia rafforzato i controlli sul proprio confine. La prima tappa per molti aspiranti combattenti è Istanbul, da dove partono diversi voli interni per città vicine al confine siriano (alcuni persone che abitano nelle vicinanze hanno soprannominato questi voli “jihadi express”). Da lì, molti aspettano in alcuni centri la possibilità di entrare in Siria di nascosto oppure utilizzando delle false carte di identità siriane.
Perchè ci vanno?
Secondo l’Economist, fra le motivazioni dei combattenti occidentali non contano molto né la povertà né l’emarginazione sociale:
Molti di essi fanno parte della classe media. Nasser Muthana, un ventenne gallese che nei video dell’IS prende il nome di Abu Muthana al-Yemeni, aveva la possibilità di studiare medicina in quattro università. Alcune foto di Muhammad Hamidur Rahman, un combattente britannico che si ritiene sia stato recentemente ucciso, mostrano un ragazzo vestito con un elegante completo e i capelli impomatati. Lavorava da Primark, un marchio di abbigliamento economico, in un negozio di Portsmouth, una città costiera inglese. Suo padre gestiva un ristorante.
Secondo l’Economist, in alcuni casi non c’entra neanche il fanatismo religioso. È circolata molto, recentemente, la notizia che due combattenti provenienti da Birmingham, in Inghilterra, prima di andare in Siria abbiano comprato su Amazon due libri delle guide gialle “per negati” (una famosa collana di guide per principianti sugli argomenti più disparati) sul Corano e sulla religione islamica.
Una spiegazione più plausibile è il desiderio di fuggire dalla noia di casa propria e di trovare una propria identità personale. Raffaello Pantucci, un analista del centro studi londinese Royal United Services Institute, ha detto che “alcune persone sono attratte da quei posti perché la loro vita non è molto interessante”. Le immagini di combattenti che giocano a biliardo, che mangiano dolci o si tuffano in piscine [diffuse attraverso estese campagne sui social network] hanno suggerito ad alcuni ragazzi che il jihad non fosse così diverso da una vacanza da studente, escluse le sbronze. Per un ragazzo che fa un lavoro senza sbocchi in una grigia cittadina, il sentirsi parte di un gruppo, la fama e le armi suscitano un certo interesse. Per questo gli estremisti hanno concentrato i loro sforzi di reclutamento in posti del genere: molti dei combattenti che provengono dal Belgio arrivano proprio dalle città più noiose.
Che fare?
Alcuni paesi, sin dall’inizio degli anni Duemila, hanno attivato dei programmi di “rieducazione” di persone coinvolte in organizzazioni terroristiche. Dallo scorso aprile, il ministero dell’Interno francese ha per esempio creato una linea telefonica dedicata in particolare ai genitori che rilevino nei figli segni di “radicalizzazione violenta” e ha finora ricevuto circa 300 segnalazioni, il 25 delle quali che facevano riferimento a dei minori e il 45 per cento a donne o ragazze. Secondo Reuters, finora circa 800 cittadini francesi hanno lasciato il paese per unirsi a gruppi radicali in Siria. Sabato scorso, una ragazza francese di sedici anni è stata arrestata all’aeroporto di Nizza: stava per volare in Turchia per poi passare di lì in Siria. Più tardi è stato arrestato anche un ragazzo di vent’anni sospettato di aver reclutato la giovane donna e di averle fornito il biglietto aereo.
Nel Regno Unito, alcuni programmi per i giovani sono parte della strategia anti terrorismo del governo, e funzionano con metodi simili a quelli rivolti ai ragazzi coinvolti in organizzazioni criminali.
Spiega Peter Neumann dell’International Centre for the Study of Radicalisation, un centro studi londinese, che i governi devono offrire una via d’uscita per le persone che realizzano di aver commesso un errore. I paesi occidentali potrebbero anche beneficiare da un approccio più morbido. I combattenti che tornano pentiti dell’esperienza potrebbero essere le persone adatte a persuadere molti ragazzi a non combattere. Ma nessuno, ancora, può sapere se i combattenti europei di oggi diventeranno terroristi in giro per le strade di Londra, Parigi o New York.
Foto: alcuni ribelli siriani fotografati nei pressi di Aleppo, in Siria, il 19 luglio 2012 (BULENT KILIC/AFP/GettyImages)