La privacy è sopravvalutata?
Per Kevin Kelly, fondatore di Wired e studioso dell'innovazione e delle reti, siamo animali da condivisione: meglio stabilire regole che temere di essere controllati
Kevin Kelly, cofondatore della rivista Wired nel 1993 e prima ancora esperto innovatore della comunicazione online (insomma, uno dei pochi che “guru di Internet” come titolo se lo merita), ha scritto un interessante articolo già molto discusso in rete nel quale propone un modo diverso di pensare la sorveglianza e il controllo delle proprie informazioni personali online: tema assai di attualità da tempo, e reso ancora più discusso dalle rivelazioni sulle operazioni di controllo della National Security Agency americana. Il fatto che società e istituzioni posseggano enormi basi di dati su chi siamo, che cosa ci piace e come ci comportiamo per lo meno online non è necessariamente una cosa negativa, ha scritto Kelly su Wired, ma semmai un’opportunità per fare evolvere ulteriormente la nostra società, posto che ci sia massima trasparenza nel processo.
Kelly dice di essere convinto che “da qui a 50 anni il monitoraggio e il controllo saranno la norma” perché, per come è stata concepita, Internet è sostanzialmente una macchina per tenere traccia delle cose che fa chi la utilizza: “Saremo sempre più monitorati da una grande rete, dalle multinazionali e dai governi. Tutto ciò che può essere misurato è già tracciato, e tutto ciò che prima non era misurabile inizia a essere quantificato, digitalizzato” e di conseguenza diventa tracciabile.
Poiché siamo già sotto controllo e lo saremo sempre di più, a causa di un processo inevitabile, la soluzione più praticabile e meno spaventosa è fare in modo che anche il controllato possa tenere d’occhio il controllore. Kelly richiama il concetto di “coveillance”, neologismo di una decina di anni fa usato dal sociologo Barry Wellman per descrivere un contesto nel quale tutti hanno possibilità di sorvegliare e controllare il prossimo, in modo che ci sia un sistema di controllo equilibrato e trasparente che garantisce le responsabilità di tutti.
Al momento le cose sono molto diverse da un contesto di “coveillance”: grandi società come Google e Facebook raccolgono enormi quantità di dati degli utenti e lo fanno spesso in modo poco trasparente, con algoritmi brevettati dei quali si sa poco, e altrettanto fanno su larga scala istituzioni per la sicurezza e lo spionaggio, come la NSA. Gli utenti non hanno idea di preciso di cosa sappiano questi soggetti sul loro conto e al tempo stesso non hanno modo di avere un controllo articolato sui loro dati personali.
Facendo un’analogia con gli organismi viventi, Kelly spiega che le reti hanno bisogno di un loro sistema immunitario per funzionare bene. Il monitoraggio e la presenza saltuariamente di qualche segreto aiutano il sistema a rimanere in salute e a ridurre i pericoli. Se diventa predominante, la segretezza si tramuta in una tossina e fa scatenare una malattia autoimmune, nella quale cioè il sistema immunitario combatte lo stesso organismo che dovrebbe tutelare. Tanti segreti richiedono molti altri segreti per essere gestiti, e questo annulla quasi completamente ogni possibilità di trasparenza.
Per evitare che i segreti continuino ad accumularsi intossicando il sistema la soluzione più praticabile è quella di rendere simmetriche le possibilità di controllo, da parte di chi gestisce i servizi online e di chi li utilizza, un principio simile a quello che gli americani chiamano di “checks and balances” che garantisce equilibrio e misura tra i poteri di uno Stato. “In questo modo il monitoraggio stesso può essere regolamentato, gli errori possono essere corretti e possono essere stabiliti confini comuni, da tutelare” scrive Kelly, ricordando che a lui stesso l’idea di un mondo altamente controllato non piace, ma che c’è poco da farci in una società profondamente digitalizzata come la nostra.
In un sistema di sorveglianza simmetrico, ognuno potrà avere il controllo e il diritto di accedere in qualsiasi momento ai propri dati. Le società di Internet in un simile contesto saranno obbligate a condividere con gli utenti le informazioni di cui sono in possesso sul loro conto, e si apriranno nuove possibilità di business nel settore del monitoraggio dei dati. I governi dovranno adattare le loro leggi a un mondo diverso, nel quale qualsiasi violazione delle regole è resa pubblica e rintracciabile attraverso le reti. Dovranno esserci regole più flessibili e adattabili al nuovo contesto.
Kelly scrive che per quanto possa apparire remoto ed esotico, lo scenario di massima trasparenza e sostanziale resa dal concetto classico di privacy ha da tempo dei precursori. I social network sono la chiara dimostrazione che la maggior parte delle persone quando può scegliere tra riservatezza e condivisione tende di solito verso la seconda. E il fenomeno diventa sempre più visibile, man mano che nuove persone iniziano a utilizzare Internet e a ritrovarsi in un altrove digitale con amici, parenti e sempre più spesso perfetti sconosciuti.
L’attuale concetto di privacy del resto ha una storia relativamente breve alle sue spalle, riconducibile a non più di 300 anni fa, quando iniziò in maniera più netta ad affermarsi l’idea di una sfera privata, di un sé. “Per ere gli esseri umani hanno vissuto in tribù e clan dove ogni atto era aperto e visibile e non c’erano segreti. Ci siamo evoluti sotto una costante co-sorveglianza. A differenza dei nostri attuali sospetti, non ci sarebbe nulla in contrario a un mondo nel quale ci controlliamo di continuo, perché è il modo in cui abbiamo vissuto per milioni di anni, e – se davvero equilibrato e simmetrico – potrebbe essere un modo confortevole di vivere” dice Kelly.
Se i social media ci hanno insegnato qualcosa su noi stessi è che l’impulso umano a condividere prevale sull’impulso umano alla privacy. Finora, a ogni svolta che ha offerto una scelta tra riservatezza e condivisione, abbiamo inclinato di solito verso maggior condivisione e maggior comunicazione.
L’evoluzione tecnologica ci ha già portato a rivedere in parte il modo in cui concepiamo noi stessi, la nostra sfera del privato e il modo di condividere con gli altri le cose che ci riguardano. Il processo, conclude Kelly, è inevitabile e farà sì che le nostre società diventeranno ancora più “social” e aperte, a patto che le possibilità di controllo diventino davvero simmetriche e trasparenti.