La crisi profonda della Libia
A quasi tre anni dalla caduta del regime di Gheddafi, il paese è nel caos con istituzioni troppo deboli, battaglie e violenze tra milizie che impediscono lo sfruttamento dei pozzi petroliferi
Giuseppe Sarcina racconta sul Corriere della Sera la crisi politica e le battaglie tra milizie armate in Libia, a circa tre anni dalla fine del regime di Muammar Gheddafi. Complice la gestione a dir poco caotica del paese da parte delle istituzioni, deboli e delegittimate, i miliziani controllano diverse porzioni di territorio e rendono difficile lo sfruttamento dei pozzi petroliferi, la risorsa economica più importante della Libia.
Se un Paese non ha un governo, se ha un Parlamento delegittimato, se produce un quinto della sua ricchezza potenziale, ebbene è un Paese finito. La Libia, oggi, è questo Paese.
A Tripoli si combatte nei quartieri di periferia. A Bengasi sembra aver già vinto il Terrore. I nomi di città, un tempo citati per i commerci o per la memoria storica, ora vengono menzionati per identificare le milizie armate. Così oggi Misurata, 200 chilometri a est di Tripoli, non indica più il centro d’affari, la terra di appalti promettenti per le imprese italiane, come la Danieli, per esempio. Bensì il quartier generale della brigata formata anche da forze islamiste che si sta scontrando con i rivali storici di Zintan, 120 chilometri a sud ovest della capitale. Nell’agosto del 2011, piu o meno in questi giorni, i generali di Zintan e di Misurata passeggiavano insieme nella hall dell’Hotel Corinthia, a Tripoli, e spiegavano ai giornalisti come sarebbe stata la Libia del dopo Gheddafi, mentre i cecchini del Colonnello ancora tiravano sui finestroni del grande albergo.
Ma negli ultimi tre anni il Paese si è avvitato in una furibonda lotta politica, prima con gli strumenti democratici (almeno per approssimazione) delle elezioni, poi con i mortai e le granate. Anche qui, come in Tunisia, in Egitto, in Siria, la rivolta contro i dittatori, la «primavera araba», ha promosso le formazioni islamiche, nelle sue più varie declinazioni: dai moderati più vicini ai Fratelli musulmani, ai radicali Salafiti, fino alle falangi affiliate ad Al-Qaeda. Per un lungo periodo partiti laici e gruppi islamici sono riusciti a convivere, illudendo gli osservatori internazionali che la Libia si stesse avvicinando più al modello tunisino che a quello egiziano. Purtroppo avevano torto. Giorno dopo giorno l’ex colonia italiana somiglia sempre più alla Siria o, forse meglio, alla Somalia. Due anni di governi formalmente di unità nazionale non sono bastati per disarmare gli «eroi», i gruppi che si erano ribellati a Gheddafi. Anzi la cultura del kalashnikov si è diffusa in modo capillare, si potrebbe dire casa per casa. Nello stesso tempo l’opera dei primi ministri a Tripoli, Ali Zeidan, Al Thinni e da ultimo Ahmed Maiteeq, non è riuscita a trasformare la Libia padronale del Colonnello in uno Stato democratico. Un compito oggettivamente difficile se bisogna tenere insieme 140 tribù e soprattutto fare i conti con le ambizioni autoritarie dei rivoluzionari.