Jim Morrison non era poi questa gran cosa?
Lo sostiene un articolo di Flavorwire, mettendo insieme nuove e vecchie critiche: «una mascella cesellata e qualche paio di pantaloni di pelle attillati»
La giornalista musicale Jillian Mapes ha pubblicato sul magazine online Flavorwire un articolo intitolato provocatoriamente Jim Morrison fu un fenomeno del momento, non una leggenda. Morrison, da decenni, è uno dei più amati e celebrati cantanti rock, uno di quelli che sono ufficialmente “miti”, con addotte ragioni musicali, sociali e biografiche. Morì a Parigi – dove tuttora è sepolto nel cimitero Père Lachaise, il cosiddetto “cimitero degli artisti” – il 3 luglio del 1971, a ventisette anni, dopo sei dischi in studio registrati con la sua band, i Doors, e celebri e sregolate abitudini di vita. Negli anni coi Doors, visse una vita piuttosto movimentata: tenne moltissimi indisciplinati concerti e divenne una specie di sex symbol – una volta si definì «re del rock orgasmico» – costruendo più o meno spontaneamente un personaggio tra il poeta e il filosofo rock poi esaltato dalla sua precoce morte, mai chiarita ma legata ad abusi di droghe secondo diverse ricostruzioni.
Ma la tesi di Mapes, semplificando molto, è che il contribuito di Morrison alla musica rock sia stato molto sopravvalutato nel corso degli anni e che sia sostanzialmente stato generato da una serie di concause piuttosto effimere presenti negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta: tesi che vale in realtà per il successo di gran parte dei personaggi musicali nella storia. Secondo Mapes innanzitutto – col senno di poi – non si può dire che Morrison sia stato un grande scrittore: i suoi testi, racconta, «potevano benissimo essere stati trovati nel cestino della spazzatura di Charles Bukowski».
Giusto per sapere: quanto devi essere fatto per poter convincere te stesso che il verso “la gente è strana, quando tu sei uno straniero” sia profondo?
La questione se considerare o meno Morrison un “vero” poeta, negli anni, è stata in effetti molto dibattuta: Morrison, in vita, pubblicò a proprie spese due soli libri di poesia, intitolati The Lords / Notes on Vision e The New Creatures. Nel 1978 uscì An American Prayer, un disco postumo realizzato sovrapponendo la registrazione di alcune proprie poesie lette da Morrison ad altrettante tracce sonore suonate dal resto dei Doors. Fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta le sue poesie furono raccolte in un’antologia di grande successo intitolata The Lost Writings of Jim Morrison.
Nel 2000, nel film musicale Almost Famous, Philip Seymour Hoffman – nella parte del famoso critico musicale Lester Bangs – durante un lungo monologo definiva Morrison «un pagliaccio ubriacone che si atteggia a poeta». Dal 2003, circola su Internet un lungo saggio di un certo William Cook che si occupa estesamente delle poesie di Morrison dal punto di vista letterario, il cui intento – come scrive lo stesso Cook – è quello di «dimostrare cosa lo qualifica come un significativo poeta americano».
Mapes, però, scrive anche che non si può dire che Morrison abbia aggiunto granché ai Doors, dal punto di vista musicale. E che anzi, l’attenzione che riceveva «grazie al suo atteggiamento» oscurava i meriti musicali degli altri tre componenti: il tastierista Ray Manzarek, il batterista John Densmore e il chitarrista Robby Krieger.
Pensate – ora, in questo momento – a “Light My Fire”: cosa vi viene in mente per prima? Il giro di tastiera di Ray Manzarek che vi invita a scatenarvi, o uno sconosciuto ubriaco che vi costringe nell’angolo della cucina per avanzarvi una proposta sessuale che rifiuterete nel giro di tre secondi? [il riferimento è al testo della canzone, una specie di lunga e metaforica proposta sessuale]
Non che per Mapes gli stessi Doors fossero così bravi: in fondo, «ai loro tempi, erano una rock band americana in un momento storico nel quale ben poche di esse tenevano il passo di quelle inglesi, che avevano trovato una maniera di reinventare una forma d’arte peraltro americana (il blues)». Mapes sostiene che «al di là delle compilation con le loro migliori canzoni, si possono considerare un po’ un mistero». Riguardo a uno dei loro dischi più famosi, L.A. Woman, Mapes scrive:
Personalmente non lo considererei un “classico” – perlomeno non nella maniera in cui lo sono i dischi dei Pink Floyd, dei Led Zeppelin o di Jimi Hendrix – ma è stato reso tale da un numero sufficiente di magliette per adolescenti e liste di Rolling Stone: così, diamo per scontato sia un grande disco. Di certo, è quello che nella loro discografia puzza meno di quel classico stereotipo dell’arte del «genio inespresso». È chiaro che blues del genere richiedono che a cantarli ci sia un tizio un po’ spaccone, ma diciamo che sarei sopravvisuta lo stesso senza che Morrison cantasse l’assolo di chitarra alla fine di “Car Hiss By My Window” invece che sentirlo solo suonato da Krieger.
In definitiva, spiega Mapes, il culto personale su Jim Morrison «racconta più del fascino degli amanti del rock per una vita densa e una morte rapida» che di un pezzo duraturo e influente della storia di quella musica.
Nel migliore dei casi, Morrison aggiunse qualcosa di suo a una tavola imbandita, o almeno qualcosa che sembra originale perché generò molti imitatori e ammiratori. MA fu un fenomeno del tempo, una sintesi delle controculture più in voga del momento – il beat, il blues, la psichedelia, l’amore libero – assieme a una mascella cesellata, qualche paio di pantaloni di pelle attillati e un personaggio di scena con una spiccata sessualità. Presto saranno passati cinquant’anni dai Doors. Possiamo smettere di aspettare che Jim Morrison torni in vita.
foto: AP Photo, File