Si chiamano Ezidi
Adriano Sofri è stato in un campo profughi di Yazidi in Iraq, ne ha capito un po' di cose e ha parlato con l'uomo che li aiuta
Su Repubblica di sabato c’è un articolo di Adriano Sofri, che è in Iraq da una settimana, sugli yazidi incontrati in un campo profughi: “popolo che sfugge ai censimenti” e che tra le altre cose dovrebbe essere chiamato degli Ezidi, spiega Sofri.
I programmi video dello stato Islamico ci hanno dato ieri la ributtante recita degli yazidi convertiti all’Islam.
Parliamo ancora degli yazidi, dunque. Li vedi dovunque, sui palazzi in costruzione, sotto i ponti delle strade, come depositati da una risacca. Nella provincia curda di Dohuk è riparata la maggior parte dei 600 mila nuovi sfollati, dopo giugno da Mosul, e dal Gebel Sinjar in agosto. UNHCR, Unicef, governo, si affannano a metter su tende, ma l’eccedenza è enorme. E’ un popolo che sfugge ai censimenti, perennemente in moto: sarebbe panico, se non fosse la più fondata delle paure. Il numero maggiore di yazidi (fra poco non li chiamerò più così) si va fermando nei campi di fortuna a Zakho, a Khanke, a Bajet Kandela: un’epopea estenuante, dopo che i peshmerga locali, del PKK di Turchia e curdi-siriani hanno aperto la discesa dal monte, l’entrata in territorio siriano e il rientro nel Kurdistan iracheno. Che una gente in fuga cerchi salvezza oltre la frontiera con la Siria martoriata, ecco un’altra ironia tragica. Tornavano in mente le pagine di Werfel sul Mussa Dagh, e in realtà fra quegli armeni e questi speciali curdi c’è stato molto da spartire.
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