Twitter e i video brutali dell’IS
Tanti account che hanno diffuso le immagini della decapitazione di Foley sono stati sospesi, facendo discutere del confine tra giornalismo e diffusione di propaganda
Martedì 19 agosto lo Stato Islamico – il gruppo estremista prima conosciuto come ISIS che ha instaurato un Califfato tra Siria e Iraq – ha diffuso un video molto violento che mostra la decapitazione del giornalista americano James Foley. Il video è circolato in breve tempo su Twitter e diversi account di YouTube legati a miliziani dello Stato Islamico l’hanno ripreso e ripubblicato. Sia YouTube che Twitter hanno cercato di fermare la diffusione del video sull’uccisione di Foley, cancellando i post e sospendendo gli account che li avevano condivisi. Tuttora, comunque, è possibile recuperare in rete il video.
L’episodio ha mostrato due cose: la prima è che l’IS si muove ormai da tempo con abilità sui social network, aggirando le limitazioni che gli vengono imposte dai diversi servizi; la seconda è che l’eterno dibattito su cosa il giornalismo debba mostrare – se debbano quindi condividere anche le immagini più crude, anche quelle diffuse esplicitamente a scopo propagandistico dagli autori delle violenze – non è stato risolto ed è anzi diventato molto più complicato e delicato negli ultimi anni.
Il primo a diffondere il video e la notizia dell’uccisione di Foley è stato il giornalista Zaid Benjamin di Radio Sawa, una stazione radio che trasmette in tutto il mondo arabo e che ha ricevuto parecchi finanziamenti dal Congresso americano e dal Broadcasting Board of Governors, un’agenzia governativa indipendente del governo statunitense. Poco dopo l’account Twitter di Zaid Benjamin – che ha quasi 50mila iscritti – è stato temporaneamente sospeso da Twitter e il tweet contenente il video è stato cancellato. Una volta che Benjamin ha potuto di nuovo usare il suo account, ha raccontato di aver ricevuto questa mail da Twitter:
An email from @twitter on my account suspension earlier pic.twitter.com/dOX3vb1Vtb
— Zaid Benjamin (@zaidbenjamin) 19 Agosto 2014
Benjamin non è stato il solo. Nelle ore successive alla diffusione del video molti account, tra cui quelli di diversi di miliziani dello Stato Islamico, sono stati sospesi. L’amministrazione statunitense ha detto al Washington Post che funzionari del dipartimento della Difesa e del dipartimento di Stato hanno chiesto a diversi social media di “prendere le misure appropriate” e conformi ai propri regolamenti nei confronti degli account che avevano condiviso il video. Nel regolamento di Twitter, per esempio, si dice:
«Twitter rimuoverà le immagini di persone morte in determinate circostanze. I famigliari e altre persone autorizzate possono richiedere la rimozione di immagini o video di persone morte, nei casi in cui le ferite siano state riportate nei momenti immediatamente precedenti o successivi la morte […].»
Le immagini dell’uccisione di Foley sono continuate però a circolare tutta la notte. Nancy Scola ha scritto sul Washington Post: «La situazione mostra la complessità di controllare i contenuti di un social media quando le condivisioni avvengono alla velocità della luce. Una grande apertura è nel DNA di Twitter». Come spiega Scola, questa cosiddetta “democraticità” dei contenuti è stata usata in passato per cause che l’Occidente considerava giuste: per esempio è stata usata dai movimenti della cosiddetta “Onda verde” in Iran nel 2009, e viene usata ancora oggi per raccontare le proteste a Ferguson, nel Missouri. C’è poi un altro problema con Twitter: gli utenti possono condividere le fotografie anche attraverso servizi esterni come TwitPic, Imgur e yfrog. In pratica non tutti i contenuti pubblicati su Twitter sono di Twitter, mentre un discorso diverso si può fare con YouTube, per esempio.
La famiglia di Foley ha chiesto di non condividere il video diffuso dall’IS, perché “è quello che i miliziani vogliono”. Negli ultimi mesi l’IS è riuscito a rafforzare la sua posizione tra gli estremisti sunniti – unendoli contro un nemico comune – anche tramite la propaganda, usando sapientemente i social media e attirando migliaia di nuovi combattenti da altri paesi arabi e anche dall’Europa. Brian Fishman, esperto di anti-terrorismo alla New America Foundation, ha sintetizzato bene questo concetto scrivendo: «Senza una guerra, l’SIS è un’organizzazione terroristica periferica. Con la guerra, è uno stato».
Nelle ultime ore intanto si è molto diffuso l’hashtag #ISISMediaBlackout, che ha come obiettivo “mettere a tacere” l’IS ed evitare di fornire pubblicità e diffusione a nuovi video o immagini di propaganda. Sembra che l’hashtag sia stato proposto per primo dall’utente @LibyaLiberty, che ha aggiunto che non avrebbe più condiviso nulla del materiale diffuso dall’IS in rete. Lo stesso hashtag è stato in parte criticato da altri operatori del settore e giornalisti. Andrew McLaughlin, ex direttore delle politiche globali di Google, ha detto che per aziende come Twitter permettere la diffusione o meno di questo tipo di news è un vero e proprio dilemma: «È tremendo che queste foto siano state fatte, ed è tremendo che questa cosa sia successa, ma quello che fanno quelli che le diffondono è anche dare le notizie». Ed è vero che la decisione sulla pubblicazione delle immagini diffuse dall’IS, nel caso dei giornali, dovrebbe essere presa dai giornali stessi, dalle redazioni, dai direttori, anche in questi tempi di grande e crescente presenza delle testate giornalistiche sui social network: ma l’account di un grande giornale su Twitter è del grande giornale o è di Twitter?