Arriva un anno intenso per la politica spagnola
Il referendum catalano previsto per novembre è il tema del momento, ma la politica nazionale sta prendendo pieghe molto "italiane"
La Spagna è stata molto raccontata sui media europei e internazionali, nelle scorse settimane, a proposito degli sviluppi che sembrano incoraggianti della sua situazione economica, seguiti a una crisi molto grave e spettacolare che aveva mostrato la fragilità dei suoi precedenti successi. Questi incerti sviluppi si pongono però in un contesto politico altrettanto vivace e precario, racconta un articolo dell’Economist, con un calendario di appuntamenti prossimi molto ricco che avrà per temi centrali le difficoltà dei partiti tradizionali e la forza crescente del movimento separatista catalano.
La Spagna ha un governo di centrodestra guidato dal leader del Partito Popolare (PPE) Mariano Rajoy, che è stato eletto alla fine del 2011 quando il PPE inflisse una grave sconfitta all’altro grande partito tradizionale della politica spagnola, il Partito Socialista (PSOE). La questione politica più delicata è oggi il rapporto con l’indipendentismo della Catalogna, la regione nordorientale di quasi otto milioni di abitanti (circa il 19 per cento della popolazione della Spagna, che producono il 19 per cento del suo PIL) che ha come capitale Barcellona e possiede una propria fortissima identità culturale e storica, a cominciare dalla lingua propria. La Catalogna ha un proprio parlamento nell’ambito di un complesso di autonomie, che sta lavorando allo svolgimento di un referendum consultivo sull’indipendenza da tenersi il 9 novembre (il tema è già stato battezzato per questo “9-N” dai media spagnoli).
Il governo Rajoy si è messo di traverso rispetto al referendum: sostiene che sia incostituzionale e non possa tenersi. Il suo interlocutore principale è Artur Mas, presidente della Catalogna, che si è impegnato con i suoi alleati separatisti più radicali a ottenere il referendum e vuole che la sua coalizione CIU (di centrodestra moderato) riesca a governare il processo verso l’indipendenza. Il contesto geograficamente più esteso comprende le tensioni intorno al referendum per l’indipendenza scozzese, che si terrà il 18 settembre, e le aspirazioni indipendentiste di un’altra regione spagnola, i Paesi Baschi, che potrebbero rafforzarsi in seguito ai successi di quelle catalane (le due regioni spagnole fanno complessivamente un quarto del PIL totale del paese), creando complicazioni proprie legate anche alla storia violenta dell’indipendentismo basco.
Il percorso verso il referendum è giuridicamente assai complicato: il parlamento catalano lo ha annunciato alla fine del 2013 basandolo su una dichiarazione di sovranità approvata un anno prima, che però la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima nel 2013. Per gli oppositori del referendum questa sentenza è sufficiente per chiedere l’annullamento del referendum, mentre Mas ha insistito che si terrà comunque: e ora il governo Rajoy minaccia di chiedere alla Corte Costituzionale un pronunciamento esplicito contro il referendum. In tutto questo, l’11 settembre è il giorno della festa nazionale catalana: ci si aspettano grandi manifestazioni a favore dell’indipendenza.
Quanto alla politica nazionale, le elezioni per il rinnovo del Parlamento sono previste tra un anno, a novembre 2015, e a maggio si terranno quelle regionali. I sondaggi danno in grande difficoltà entrambi i partiti maggiori, e i recenti ottimismi sulle questioni economiche non sembrano pesare sul giudizio degli elettori, in una fase generale di grande delusione per la politica tradizionale. Il PSOE ha provato – nella gravità della sua crisi – a investire su un leader nuovo e relativamente giovane, Pedro Sanchez, che dovrà partecipare alle primarie con cui verrà scelto il candidato premier. La novità maggiore è il partito di sinistra “Podemos”, che alle elezioni europee dello scorso maggio ha ottenuto l’8 per cento dei voti e che i sondaggi danno in competizione con PSOE e PP, forte soprattutto in città come Madrid e Valencia: il suo consenso viene spesso paragonato a quello del partito greco Syriza e a quello dell’italiano M5S. Chiede la nazionalizzazione di servizi e industrie, salari minimi maggiori e limiti agli stipendi massimi, settimana lavorativa di 35 ore e un referendum sull’uscita dalla NATO. Il suo leader di fatto (non ufficiale, ma solo “portavoce”) Pablo Iglesias – che l’Economist definisce “in gamba e telegenico” – è un ricercatore universitario e conduttore televisivo, ma il suo maggiore alleato sono i frequenti scandali di corruzione che riguardano i partiti tradizionali, definiti “la casta” da Iglesias e Podemos.
L’incognita principale, sulla scala nazionale, è ora la ripresa economica: se dovesse proseguire, ne potrebbe beneficiare il PP di Rajoy, mentre il PSOE dovrà dimostrare che il suo nuovo leader è sufficiente a farlo percepire come un partito che può cambiare. Ma l’ipotesi prevalente – anche questa familiare ai lettori italiani – è che nessuno dei tre partiti principali sarà in grado di governare da solo, tra un anno.
(nella foto Pablo Iglesias, leader di Podemos, dopo le elezioni europee, GERARD JULIEN,GERARD JULIEN/AFP/Getty Images)