Come scrivere di un suicidio
Ci sono delle linee guida precise che i giornali dovrebbero rispettare, ma che nel caso della morte di Robin Williams sono state spesso ignorate
Negli ultimi giorni la notizia del suicidio dell’attore statunitense Robin Williams – trovato morto nella sua casa a Tiburon, in California, nel pomeriggio di lunedì 11 agosto – ha occupato le prime pagine di moltissimi giornali di tutto il mondo, e le attenzioni dei loro lettori. Il rapporto tra queste due cose – il modo in cui i giornali trattano il suicidio di un personaggio molto noto, e le reazioni di chi legge – è oggetto da tempo di grandi discussioni: il pericolo, hanno dimostrato diversi studi, è che parlarne nella maniera “sbagliata” possa portare molte altre persone che soffrono di depressione a emulare il gesto e uccidersi a loro volta. E come hanno fatto notare alcuni, qualcosa nel racconto della morte di Robin Williams non è andato nel verso giusto.
Come ha spiegato Mary Hamilton, giornalista dell’edizione australiana del Guardian, nel giornalismo esistono linee guida piuttosto chiare che indicano come parlare e raccontare un suicidio. Una sintesi efficace di queste regole è stata fatta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha pubblicato un rapporto intitolato: «Prevenire il suicidio. Una risorsa per i professionisti dei media». Per esempio, quando si scrive di suicidio è necessario pensare all’impatto che quell’articolo può avere sui lettori: può essere quindi utile fornire indicazioni o numeri di telefono da contattare in caso di emergenze (l’ha fatto il Guardian per esempio, che alla fine dell’articolo sulla notizia della morte di Robin Williams ha messo i numeri di telefono da contattare dei centri di prevenzione del suicidio negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia). Inoltre è raccomandato evitare di raccontare il suicidio nei dettagli, omettendo per esempio le modalità con cui quella persona si è uccisa.
Il motivo è che i lettori più vulnerabili potrebbero “imitare” il comportamento suicida riportato dal giornale, specie se la copertura che viene data dell’evento è molto ampia e usa toni sensazionalistici. Come ha specificato Hamilton, non si tratta di un’ipotesi di scuola: negli ultimi anni sono stati condotti centinaia di studi sul cosiddetto “suicidio per emulazione”, che hanno dimostrato che una particolare copertura dei media sulla morte di una persona può effettivamente incoraggiare altre persone considerate “vulnerabili” a uccidersi nella stessa maniera.
Nel caso del suicidio di Robin Williams, parte della stampa britannica non ha rispettato queste indicazioni generali. Il tabloid Sun e il free press Metro, per esempio, hanno deciso di fornire – in prima pagina – i dettagli su come Williams si è ucciso, mentre il Mail e il Mirror si sono focalizzati sulle ragioni del gesto. Il punto, ha spiegato Hamilton, è questo:
«La ragione per cui i media non dovrebbero parlare dei metodi usati per un suicidio è che fornire quelle informazioni può trasformare qualcuno che è “passivamente suicida” in qualcuno con un “piano attivo”. Conoscere la distanza di caduta, il legaccio usato, le medicine assunte, le lame impiegate, tutte queste cose possono dare a una persona la conoscenza di come effettivamente mettere in pratica l’atto, come portare i suoi pensieri da un piano ipotetico a un piano reale. Certo, se una persona vuole può andare su Google a prendere quelle informazioni. Ma così si richiede un atto di volontà; c’è una barriera che agisce come un controllo ulteriore, un momento in cui potenzialmente riconsiderare quello che si vuole fare. Google mostra anche nei suoi risultati una serie di numeri da chiamare per ricevere aiuto, che è molto di più di quanto alcuni media fanno nei loro articoli»
Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità specificano poi altre regole che i media dovrebbero seguire: evitare per esempio di scrivere che un posto ha reputazione di essere “un sito dove molte persone vanno a uccidersi” – un ponte, un edificio molto alto, una stazione dei treni, ecc… – oppure evitare di mettere la parola “suicidio” nel titolo dell’articolo. Accortezze che nel caso della morte di Robin Williams non sono state del tutto seguite. Williams, inoltre, è stato descritto da una parte della stampa in associazione alla sua depressione e alla lotta contro la dipendenza alle droghe. Ma come ha scritto Hamilton, questo approccio lega l’idea del genio di Williams alla sua tristezza:
«Senza la sua brillantezza, la sua instabilità mentale sarebbe rimasta; e senza la sua instabilità mentale, la sua brillantezza sarebbe stata ancora più grande. Puoi essere un genio senza essere depresso, e in genere coloro che non hanno malattie croniche rilevanti ottengono molto di più e hanno vite più lunghe»
Sempre rimanendo sullo stesso tema, martedì 12 agosto il Washington Post ha pubblicato un articolo riguardo il tweet che l’Academy – organizzazione americana che raccoglie i professionisti del cinema e che ogni anno organizza i premi Oscar – ha fatto poco dopo la diffusione della notizia della morte di Williams, e che ha avuto grandissima diffusione online.
Genie, you’re free. pic.twitter.com/WjA9QuuldD
— The Academy (@TheAcademy) 12 Agosto 2014
Il tweet dice «Genio, sei libero», in riferimento alle parole che il protagonista del film animato Aladdin, del 1992, rivolge al Genio della lampada, doppiato proprio da Williams nella versione originale. Più di 300mila persone hanno ritwittato quel messaggio, che però – scrive il Washington Post – viola gli standard riconosciuti e decisi per parlare in modo sano di suicidio: nel tweet si implica infatti che il suicidio è un’opzione “liberatoria” e il rischio rimane l’emulazione di cui ha parlato Hamilton.