Le vite degli yazidi
Un reportage di un importante fotografo iracheno racconta la fuga della minoranza curda improvvisamente al centro del mondo
Dal 3 agosto migliaia di iracheni yazidi – una minoranza di lingua curda che pratica una religione sincretica dei culti nati in Medio Oriente – sono in fuga dai loro villaggi nell’aria di Sinjar, nel nord dell’Iraq, attaccati dai miliziani dello Stato Islamico (IS). Circa 40.000 si sono rifugiati sul Jebel Sinjar, una cresta montagnosa sacra per la loro religione, lunga circa quaranta chilometri e alta fino a 1.300 metri: sono stati assediati dai miliziani dell’organizzazione islamica nota come “Stato Islamico”, che aspettano che scendano dalle montagne o muoiano di sete, e hanno ricevuto provviste aeree da Stati Uniti e Regno Unito. Gli Stati Uniti hanno bombardato alcuni obiettivi militari dello Stato Islamico proprio per evitare il massacro degli yazidi, che Obama ha chiamato “genocidio”.
Moltissimi altri – si parla sempre di decine di migliaia – si sono diretti in Siria, e hanno attraversato la frontiera sul ponte Fishkhabour (o “Peshkapour”), l’unico punto in cui si può entrare nel paese dal Kurdistan iracheno. Si tratta di una struttura galleggiante che a stento può ospitare due automobili affiancate, che attraversa il fiume Tigri e si trova a circa 200 chilometri da Sinjar. Molti altri invece sono scappati a Dohuk, una città che si trova a circa 160 chilometri a nord-ovest di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, dove si sono rifugiati nei posti pubblici che potevano occupare e nei palazzi in costruzione.
Il fotografo iracheno Ahmad al-Rubaye di Agence France-Presse è andato a Dohuk e sul ponte Fishkhabour per raccontare la loro fuga: scalzi, su carretti, con figli in braccio e padri anziani in spalla.
Al-Rubaye è un importante fotografo iracheno, nato nel 1975 in una famiglia molto povera, e cresciuto nella baraccopoli di Saddam City. Dopo aver lavorato come falegname, commerciante e fotografo di matrimoni, ha iniziato a collaborare con Agence France Presse nel 2001, di cui è diventato un assiduo collaboratore dal 2003, dopo l’invasione statunitense dell’Iraq. Ha raccontato la caduta di Saddam Hussein – «la sensazione di libertà era incredibile» – e poi la nascita delle violenze settarie e i numerosissimi attentati nel paese: «Mi trovavo in questa situazione: un occhio versava lacrime, l’altro era sulla macchina fotografica a scattare foto». È stato imprigionato e ha rischiato di essere ucciso dai sunniti, che lo accusarono di essere una spia sciita per via di alcune fotografie che aveva scattato durante le preghiere nella loro moschea.
Nel 2011 è andato in Libia, dove ha raccontato la guerra e la vita dei ribelli. Nel maggio 2013 le sue fotografie sono state pubblicate, insieme a quelle di altri importanti fotografi di guerra, nel libro Photojournalists on War: The Untold Stories from Iraq, che raccoglie alcune delle immagini più significative dei nove anni di guerra in Iraq.